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IL CONTE DI CARMAGNOLA

Alessandro Manzoni

   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   Alessandro Manzoni
   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   TRAGEDIA
   AL SIGNOR
   CARLO CLAUDIO FAURIEL
   IN ATTESTATO
   DI CORDIALE E RIVERENTE AMICIZIA
   L’AUTORE
 
   PREFAZIONE
   Pubblicando un’opera d’immaginazione che non si uniforma ai canoni di gusto ricevuti comunemente in Italia, e sanzionati dalla consuetudine dei più, io non credo però di dover annoiare il lettore con una lunga esposizione de’ princìpi che ho seguiti in questo lavoro. Alcuni scritti recenti contengono sulla poesia drammatica idee così nuove e vere e di così vasta applicazione, che in essi si può trovare facilmente la ragione d’un dramma il quale, dipartendosi dalle norme prescritte dagli antichi trattatisti, sia ciò non ostante condotto con una qualche intenzione. Oltrediché, ogni componimento presenta a chi voglia esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio avviso sono questi: quale sia l’intento dell’autore; se questo intento sia ragionevole; se l’autore l’abbia conseguito. Prescindere da un tale esame, e volere a tutta forza giudicare ogni lavoro secondo regole, delle quali è controversa appunto l’universalità e la certezza, è lo stesso che esporsi a giudicare stortamente un lavoro: il che per altro è uno de’ più piccoli mali che possano accadere in questo mondo.
   Tra i vari espedienti che gli uomini hanno trovati per imbrogliarsi reciprocamente, uno de’ più ingegnosi è quello d’avere, quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute egualmente come infallibili. Applicando quest’uso anche ai piccoli interessi della poesia, essi dicono a chi la esercita: siate originale, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi abbiano lasciato l’esempio. Questi comandi che rendono difficile l’arte più di quello che è già, levano anche a uno scrittore la speranza di poter rendere ragione d’un lavoro poetico; quand’anche non ne lo ritenesse il ridicolo a cui s’espone sempre l’apologista de’ suoi propri versi.
   Ma poiché la quistione delle due unità di tempo e di luogo può esser trattata tutta in astratto, e senza far parola della presente qualsisia tragedia: e poiché queste unità, malgrado gli argomenti a mio credere inespugnabili che furono addotti contro di esse, sono ancora da moltissimi tenute per condizioni indispensabili del dramma; mi giova di riprenderne brevemente l’esame. Mi studierò per altro di fare piuttosto una picciola appendice, che una ripetizione degli scritti che le hanno già combattute.
   I. L’unità di luogo, e la così detta unità di tempo, non sono regole fondate nella ragione dell’arte, né connaturali all’indole del poema drammatico; ma sono venute da una autorità non bene intesa, e da princìpi arbitrari: ciò risulta evidente a chi osservi la genesi di esse. L’unità di luogo è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un’azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica. L’unità di tempo ebbe origine da un passo di Aristotele,([1]) il quale, come benissimo osserva il signor Schlegel,([2]) non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un fatto; cioè della pratica più generale del teatro greco. Che se Aristotele avesse realmente inteso di stabilire un canone dell’arte, questa sua frase avrebbe il doppio inconveniente di non esprimere un’idea precisa, e di non essere accompagnata da alcun ragionamento.
   Quando poi vennero quelli che, non badando all’autorità, domandarono la ragione di queste regole, i fautori di esse non seppero trovarne che una, ed è: che, assistendo lo spettatore realmente alla rappresentazione d’un’azione, diventa per lui inverisimile che le diverse parti di questa avvengano in diversi luoghi, e che essa duri per un lungo tempo, mentre lui sa di non essersi mosso di luogo, e d’avere impiegate solo poche ore ad osservarla. Questa ragione è evidentemente fondata su un falso supposto, cioè che lo spettatore sia lì come parte dell’azione; quando è, per così dire, una mente estrinseca che la contempla. La verosimiglianza non deve nascere in lui dalle relazioni dell’azione col suo modo attuale di essere, ma da quelle che le varie parti dell’azione hanno tra di loro. Quando si considera che lo spettatore è fuori dell’azione, l’argomento in favore delle unità svanisce.
   II. Queste regole non sono in analogia con gli altri princìpi dell’arte ricevuti da quegli stessi che le credono necessarie. Infatti s’ammettono nella tragedia come verisimili molte cose che non lo sarebbero se ad esse s’applicasse il principio sul quale si stabilisce la necessità delle due unità; il principio, cioè, che nel dramma rappresentato siano verosimili que’ fatti soli che s’accordano con la presenza dello spettatore, dimanieraché possano parergli fatti reali. Se uno dicesse, per esempio: que’ due personaggi che parlano tra loro di cose segretissime, come se credessero d’esser soli, distruggono ogni illusione, perché io sento d’esser loro visibilmente presente, e li veggo esposti agli occhi d’una moltitudine; gli farebbe precisamente la stessa obiezione che i critici fanno alle tragedie dove sono trascurate le due unità. A quest’uomo non si può dare che una risposta: la platea non entra nel dramma: e questa risposta vale anche per le due unità. Chi cercasse il motivo per cui non si sia esteso il falso principio anche a questi casi, e non si sia imposto all’arte anche questo giogo, io credo che non ne troverebbe altro, se non che per questi casi non ci era un periodo d’Aristotele.
   III. Se poi queste regole si confrontano con l’esperienza, la gran prova che non sono necessarie alla illusione è, che il popolo si trova nello stato d’illusione voluta dall’arte, assistendo ogni giorno e in tutti i paesi a rappresentazioni dove esse non sono osservate; e il popolo in questa materia è il miglior testimonio. Poiché non conoscendo esso la distinzione dei diversi generi d’illusione, e non avendo alcuna idea teorica del verosimile dell’arte definito da alcuni critici pensatori; niuna idea astratta, niun precedente giudizio potrebbe fargli ricevere un’impressione di verosimiglianza da cose che non fossero naturalmente atte a produrla. Se i cangiamenti di scena distruggessero l’illusione, essa dovrebbe certamente essere più presto distrutta nel popolo che nelle persone colte, le quali piegano più facilmente la loro fantasia a secondar l’intenzioni dell’artista.
   Se dai teatri popolari passiamo ad esaminare qual caso si sia fatto di queste regole ne’ teatri colti delle diverse nazioni, troviamo che nel greco non sono mai state stabilite per principio, e che s’è fatto contro ciò che esse prescrivono, ogni volta che l’argomento lo ha richiesto; che i poeti drammatici inglesi e spagnoli più celebri, quelli che sono riguardati come i poeti nazionali, non le hanno conosciute, o non se ne sono curati; che i tedeschi le rifiutano per riflessione. Nel teatro francese vennero introdotte a stento; e l’unità di luogo in ispecie incontrò ostacoli da parte de’ comici stessi, quando vi fu messa in pratica da Mairet con la sua Sofonisba, che si dice la prima tragedia regolare francese: quasi fosse un destino che la regolarità deva sempre cominciare da una Sofonisba noiosa. In Italia queste regole sono state seguite come leggi, e senza discussione, che io sappia, e quindi probabilmente senza esame.
   IV. Per colmo poi di bizzarria, è accaduto che quegli stessi che le hanno ricevute non le osservano esattamente in fatto. Perché, senza parlare di qualche violazione dell’unità di luogo che si trova in alcune tragedie italiane e francesi, di quelle chiamate esclusivamente regolari, è noto che l’unità di tempo non è osservata né pretesa nel suo stretto senso, cioè nell’uguaglianza del tempo fittizio attribuito all’azione col tempo reale che essa occupa nella rappresentazione. Appena in tutto il teatro francese si citano tre o quattro tragedie che adempiscano questa condizione. Comme il est très-rare (dice un critico francese) de trouver des sujets qui puissent être resserrés dans des bornes si étroites, on a élargi la règle, et on l’a étendue jusqu’à vingt-quatre heures.( [3] ) Con una tale transazione i trattatisti non hanno fatto altro che riconoscere l’irragionevolezza della regola, e si sono messi in un campo dove non possono sostenersi in nessuna maniera. Giacché si potrà ben discutere con chi è di parere che l’azione non deva oltrepassare il tempo materiale della rappresentazione; ma chi ha abbandonato questo punto, con qual ragione pretenderà che uno si tenga in un limite fissato così arbitrariamente? Cosa si può mai dire a un critico, il quale crede che si possano allargare le regole? Accade qui, come in molte altre cose, che sia più ragionevole chiedere il molto che il poco. Ci sono ragioni più che sufficienti per esimersi da queste regole; ma non se ne può trovare una per ottenere una facilitazione a chi le voglia seguire. Il serait donc à souhaiter (dice un altro critico) que la durée fictive de l’action pût se borner au temps du spectacle; mais c’est être ennemi des arts, et du plaisir qu’ils causent, que de leur imposer des lois qu’ils ne peuvent suivre, sans se priver de leurs ressources les plus fécondes, et de leurs plus rares beautés. Il est des licences heureuses, dont le Public convient tacitement avec les poètes, à condition qu’ils les employent à lui plaire, et à le toucher; et de ce nombre est l’extension feinte et supposée du temps réel de l’action théâtrale.( [4] ) Ma le licenze felici sono parole senza senso in letteratura; sono di quelle molte espressioni che rappresentano un’idea chiara nel loro significato proprio e comune, e che usate qui metaforicamente rinchiudono una contradizione. Si chiama ordinariamente licenza ciò che si fa contro le regole prescritte dagli uomini; e si danno in questo senso licenze felici, perché tali regole possono essere, e sono spesso, più generali di quello che la natura delle cose richieda. Si è trasportata questa espressione nella grammatica, e vi sta bene; perché le regole grammaticali essendo di convenzione, e per conseguenza alterabili, può uno scrittore, violando alcuna di queste, spiegarsi meglio; ma nelle regole intrinseche alle arti del bello la cosa sta altrimenti. Esse devono essere fondate sulla natura, necessarie, immutabili, indipendenti dalla volontà de’ critici, trovate, non fatte; e quindi la trasgressione di esse non può esser altro che infelice. — Ma perché queste riflessioni su due parole? Perché nelle due parole appunto sta l’errore. Quando s’abbraccia un’opinione storta, si usa per lo più spiegarla con frasi metaforiche e ambigue, vere in un senso e false in un altro; perché la frase chiara svelerebbe la contradizione. E a voler mettere in chiaro l’erroneità della opinione, bisogna indicare dove sta l’equivoco.
   V. Finalmente queste regole impediscono molte bellezze, e producono molti inconvenienti.
   Non discenderò a dimostrare con esempi la prima parte di questa proposizione: ciò è stato fatto egregiamente più di una volta. E la cosa resulta tanto evidentemente dalla più leggiera osservazione d’alcune tragedie inglesi e tedesche, che i sostenitori stessi delle regole sono costretti a riconoscerla. Confessano essi che il non astringersi ai limiti reali di tempo e di luogo lascia il campo a una imitazione ben altrimenti varia e forte: non negano le bellezze ottenute a scapito delle regole; ma affermano che bisogna rinunziare a quelle bellezze, giacché per ottenerle bisogna cadere nell’inverosimile. Ora, ammettendo l’obiezione, è chiaro che l’inverosimiglianza tanto temuta non si farebbe sentire che alla rappresentazione scenica; e però la tragedia da recitarsi sarebbe di sua natura incapace di quel grado di perfezione, a cui può arrivare la tragedia, quando non si consideri che come un poema in dialogo, fatto soltanto per la lettura, del pari che il narrativo. In tal caso, chi vuol cavare dalla poesia ciò che essa può dare, dovrebbe preferire sempre questo secondo genere di tragedia: e nell’alternativa di sacrificare o la rappresentazione materiale, o ciò che forma l’essenza del bello poetico, chi potrebbe mai stare in dubbio? Certo, meno d’ogni altro quei critici i quali sono sempre di parere che le tragedie greche non siano mai state superate dai moderni, e che producano il sommo effetto poetico, quantunque non servano più che alla lettura. Non ho inteso con ciò di concedere che i drammi senza le unità riescano inverosimili alla recita: ma da una conseguenza ho voluto far sentire il valore del principio.
   Gl’inconvenienti che nascono dall’astringersi alle due unità, e specialmente a quella di luogo, sono ugualmente confessati dai critici. Anzi non par credibile che le inverosimiglianze esistenti nei drammi orditi secondo queste regole, siano così tranquillamente tollerate da coloro che vogliono le regole a solo fine d’ottenere la verosimiglianza. Cito un solo esempio di questa loro rassegnazione: Dans Cinna il faut que la conjuration se fasse dans le cabinet d’Emilie, et qu’Auguste vienne dans ce mêne cabinet confondre Cinna, et lui pardonner: cela est peu naturel. La sconvenienza è assai bene sentita, e sinceramente confessata. Ma la giustificazione è singolare. Eccola: Cependant il le faut.( [5] )
   Forse si è qui eccessivamente ciarlato su una questione già così bene sciolta, e che a molti può parer troppo frivola. Rammenterò a questi ciò che disse molto sensatamente in un caso consimile un noto scrittore: Il n’y a pas grand mal à se tromper en tout cela: mais il vaut encore mieux ne s’y point tromper, s’il est possible.([6]) E del rimanente, credo che una tale questione abbia il suo lato importante. L’errore solo è frivolo in ogni senso. Tutto ciò che ha relazione con l’arti della parola, e coi diversi modi d’influire sulle idee e sugli affetti degli uomini, è legato di sua natura con oggetti gravissimi. L’arte drammatica si trova presso tutti i popoli civilizzati: essa è considerata da alcuni come un mezzo potente di miglioramento, da altri come un mezzo potente di corruttela, da nessuno come una cosa indifferente. Ed è certo che tutto ciò che tende a ravvicinarla o ad allontanarla dal suo tipo di verità e di perfezione, deve alterare, dirigere, aumentare, o diminuire la sua influenza.
   Quest’ultime riflessioni conducono a una questione più volte discussa, ora quasi dimenticata, ma che io credo tutt’altro che sciolta; ed è: se la poesia drammatica sia utile o dannosa. So che ai nostri giorni sembra pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò, dacché il Pubblico di tutte le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del teatro. Mi sembra però che ci voglia molto coraggio per sottoscriversi senza esame a una sentenza contro la quale sussistono le proteste di Nicole, di Bossuet, e di G. G. Rousseau, il di cui nome unito a questi viene qui ad avere una autorità singolare. Essi hanno unanimemente inteso di stabilire due punti: uno che i drammi da loro conosciuti ed esaminati sono immorali: l’altro che ogni dramma deva esserlo, sotto pena di riuscire freddo, e quindi vizioso secondo l’arte; e che in conseguenza la poesia drammatica sia una di quelle cose che si devono abbandonare, quantunque producano dei piaceri, perché essenzialmente dannose. Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico giudicato dagli scrittori nominati qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza che ne hanno dedotta contro la poesia drammatica in generale. Mi pare che siano stati tratti in errore dal non aver supposto possibile altro sistema che quello seguito in Francia. Se ne può dare, e se ne dà un altro suscettibile del più alto grado d’interesse e immune dagl’inconvenienti di quello: un sistema conducente allo scopo morale, ben lungi dall’essergli contrario. Al presente saggio di componimento drammatico, m’ero proposto d’unire un discorso su tale argomento. Ma costretto da alcune circostanze a rimettere questo lavoro ad altro tempo, mi fo lecito d’annunziarlo; perché mi pare cosa sconveniente il manifestare una opinione contraria all’opinione ragionata d’uomini di prim’ordine, senza addurre le proprie ragioni, o senza prometterle almeno([7]).
   Mi rimane a render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio, o un enimma. Non posso meglio spiegarne l’intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de’ pensieri morali che l’azione ispira, come l’organo de’ sentimenti del poeta che parla in nome dell’intera umanità. E poco sotto: Vollero i greci che in ogni dramma il Coro... fosse prima di tutto il rappresentante del genio nazionale, e poi il difensore della causa dell’umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso temperava l’impressioni violente e dolorose d’un azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite dalla vaghezza d’un’espressione lirica e armonica, e lo conduceva così nel campo più tranquillo della contemplazione.([8]) Ora m’è parso che, se i Cori dei greci non sono combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull’idea di que’ Cori. Se l’essere questi indipendenti dall’azione e non applicati a personaggi li priva d’una gran parte dell’effetto che producevano quelli, può però, a mio credere, renderli suscettibili d’uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre sugli antichi il vantaggio d’essere senza inconvenienti: non essendo legati con l’orditura dell’azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando al poeta un cantuccio dove egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione d’introdursi nell’azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti: difetto dei più notati negli scrittori drammatici. Senza indagare se questi Cori potessero mai essere in qualche modo adattati alla recita, io propongo soltanto che siano destinati alla lettura: e prego il lettore d’esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che qui se ne presenta; perché il progetto mi sembra potere essere atto a dare all’arte più importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più determinato d’influenza morale.
   Premetto alla tragedia alcune notizie storiche sul personaggio e sui fatti che sono l’argomento di essa, pensando che chiunque si risolve a leggere un componimento misto d’invenzione e di verità storica, ami di potere, senza lunghe ricerche, discernere ciò che vi è conservato di avvenimenti reali.
   NOTIZIE STORICHE
   Francesco di Bartolommeo Bussone, contadino, nacque in Carmagnola, donde prese il nome di guerra che gli è rimasto nella storia. Non si sa di certo in qual anno nascesse: il Tenivelli, che ne scrisse la vita nella Biografia Piemontese, crede che sia stato verso il 1390. Mentre ancor giovinetto pascolava delle pecore, l’aria fiera del suo volto fu osservata da un soldato di ventura, che lo invitò a venir con lui alla guerra. Egli lo seguì volentieri, e si mise con esso al soldo di Facino Cane, celebre condottiero.
   Qui la storia del Carmagnola comincia ad esser legata con quella del suo tempo: io non toccherò di questa se non i fatti principali, e particolarmente quelli che sono accennati o rappresentati nella tragedia. Alcuni di essi sono raccontati così diversamente dagli storici, che è impossibile formarsene e darne una opinione, certa e unica. Tra le relazioni spesso varie, e talvolta opposte, ho scelto quelle che mi sono parse più verosimili, o sulle quali gli scrittori vanno più d’accordo.
   Alla morte di Giovanni Maria Visconti Duca di Milano (1412), il di lui fratello Filippo Maria Conte di Pavia era rimasto erede, in titolo, del Ducato. Ma questo Stato, ingrandito dal loro padre Giovanni Galeazzo, s’era sfasciato nella minorità di Giovanni, pessimamente tutelata, e nel suo debole e crudele governo. Molte città s’erano ribellate, alcune erano tornate in potere de’ loro antichi signori, d’altre s’erano fatti padroni i condottieri stessi delle truppe ducali. Facino Cane uno di questi, il quale di Tortona, Vercelli ed altre città s’era formato un piccolo principato, morì in Pavia lo stesso giorno che Giovanni Maria fu ucciso da’ congiurati in Milano. Filippo sposò Beatrice Tenda vedova di Facino, e con questo mezzo si trovò padrone delle città già possedute da lui, e de’ suoi militi.
   Era tra essi il Carmagnola, e ci aveva già un comando. Questo esercito corse col nuovo Duca sopra Milano, ne scacciò il figlio naturale di Barnabò Visconti, Astorre, il quale se n’era impadronito, e lo sforzò a ritirarsi in Monza, dove assediato, rimase ucciso.
   Il Carmagnola si segnalò tanto in questa impresa, che fu nominato condottiero dal Duca.
   Tutti gli storici riguardano il Carmagnola come artefice della potenza di Filippo. Fu il Carmagnola che gli riacquistò in poco tempo Piacenza, Brescia, Bergamo, e altre città. Alcune ritornarono allo Stato per vendita o per semplice cessione di quelli che le avevano occupate: il terrore che già ispirava il nome del nuovo condottiero sarà probabilmente stato il motivo di queste transazioni. Egli espugnò inoltre Genova, e la riunì agli stati del Duca. E questo, che nel 1412 era senza potere e come prigioniero in Pavia, possedeva nel 1424 venti città «acquistate» a, per servirmi delle parole di Pietro Verri, «colle nozze della infelice Duchessa,([9]) e colla fede e col valore del Conte Francesco». Venne il Carmagnola creato dal Duca conte di Castelnovo; sposò Antonietta Visconti parente di esso, non si sa in qual grado; e si fabbricò in Milano il palazzo chiamato ancora del Broletto.
   L’alta fama dell’esimio condottiero, l’entusiasmo de’ soldati per lui, il suo carattere fermo e altiero, la grandezza forse de suoi servizi, gli alienarono l’animo del Duca. I nemici del Conte, tra i quali il Bigli, storico contemporaneo, cita Zanino Riccio e Oldrado Lampugnano, fomentarono i sospetti e l’avversione del loro signore. Il Conte fu spedito governatore a Genova, e levato così dalla direzione della milizia. Aveva conservato il comando di trecento cavalli; il Duca gli chiese per lettere che lo rinunziasse. Il Carmagnola rispose pregandolo che non volesse spogliare dell’armi un uomo nutrito tra l’armi: e ben s’accorse, dice il Bigli,([10]) che questo era un consiglio de’ suoi nemici, i quali confidavano di poter tutto osare, quando lo avessero ridotto a condizione privata. Non ottenendo risposta né alle lagnanze, né alla domanda espressa d’essere licenziato dal servizio, il Conte si risolvette di recarsi in persona a parlare col principe. Questo dimorava in Abbiategrasso. Quando il Carmagnola si presentò per entrare nel castello, si sentì con sorpresa dire che aspettasse. Fattosi annunziare al Duca, ebbe in risposta ch’era impedito, e che parlasse con Riccio. Insistette, dicendo d’aver poche cose e da comunicarsi al Duca stesso; e gli fu replicata la prima risposta. Allora rivolto a Filippo, che lo guardava da una balestriera, gli rimproverò la sua ingratitudine, e la sua perfidia, e giurò che presto si farebbe desiderare da chi non voleva allora ascoltarlo: diede volta al cavallo, e partì coi pochi compagni che aveva condotti con sé, inseguito invano da Oldrado, il quale, al dir del Bigli, credette meglio di non arrivarlo.
   Andò il Carmagnola in Piemonte, dove abboccatosi con Amedeo duca di Savoia suo natural principe, fece di tutto per inimicarlo a Filippo; poi attraversando la Savoia, la Svizzera e il Tirolo, si portò a Treviso. Filippo confiscò i beni assai ragguardevoli che il Carmagnola aveva nel Milanese.([11])
   Giunto il Carmagnola a Venezia il giorno 23 di febbraio del 1425, vi fu accolto con distinzione, gli fu dato alloggio dal pubblico nel Patriarcato, e concessa licenza di portar armi a lui e al suo seguito. Due giorni dopo, fu preso al servizio della repubblica con 300 lance.([12])
   I Fiorentini, impegnati allora in una guerra infelice contro il Duca Filippo, chiedevano l’alleanza dei Veneziani: il Duca instava presso di essi perché volessero rimanere in pace con lui. In questo frattempo un Giovanni Liprando, fuoruscito milanese, pattuì col Duca d’ammazzare il Carmagnola, purché gli fosse concesso di ritornare a casa. La trama fu sventata, e levò ai Veneziani ogni dubbio che il Conte fosse mai più per riconciliarsi col suo antico principe. Il Bigli attribuisce in gran parte a questa scoperta la risoluzione dei Veneziani per la guerra. Il doge propose in senato che si consultasse il Carmagnola: questo consigliò la guerra: il doge opinò pure caldamente per essa: e fu risoluta. La lega coi Fiorentini e con altri Stati d’Italia fu proclamata in Venezia il giorno 27 gennaio del 1426. Il giorno 11 del mese seguente il Carmagnola fu creato capitano generale delle genti di terra della repubblica; e il 15 gli fu dato dal doge il bastone e lo stendardo di capitano, all’altare di san Marco.
   Trascorrerò più rapidamente che mi sarà possibile sugli avvenimenti di questa guerra, la quale fu interrotta da due paci, fermandomi solo sui fatti che hanno somministrato materiali alla tragedia.
   «Ridussesi la guerra in Lombardia, dove fu governata dal Carmagnola virtuosamente, ed in pochi mesi tolse molte terre al Duca insieme con la città di Brescia; la quale espugnazione in quelli tempi, e secondo quelle guerre, fu tenuta mirabile.»([13]) Papa Martino V s’intromise; e sul finire dello stesso anno fu conclusa la pace, nella quale Filippo cedette ai Veneziani Brescia col suo territorio.
   Nella seconda guerra (1427) il Carmagnola mise per la prima volta in uso un suo ritrovato di fortificare il campo con un doppio recinto di carri, sopra ognuno de’ quali stavano tre balestrieri. Dopo molti piccoli fatti, e dopo la presa d’alcune terre, s’accampò sotto il castello di Maclodio, ch’era difeso da una guarnigione duchesca.
   Comandavano nel campo del Duca quattro insigni condottieri, Angelo della Pergola, Guido Torello, Francesco Sforza, e Nicolò Piccinino.([14]) Essendo nata discordia tra di loro, il giovine Filippo vi mandò con pieni poteri Carlo Malatesti pesarese, di nobilissima famiglia; ma, dice il Bigli, alla nobiltà mancava l’ingegno. Questo storico osserva che il supremo comando dato al Malatesti non bastò a levar di mezzo la rivalità de’ condottieri; mentre nel campo veneto a nessuno repugnava d’ubbidire al Carmagnola, benché avesse sotto di sé condottieri celebri, e principi, come Giovanfrancesco Gonzaga, signore di Mantova, Antonio Manfredi, di Faenza, e Giovanni Varano, di Camerino.
   Il Carmagnola seppe conoscere il carattere del generale nemico, e cavarne profitto. Attaccò Maclodio, in vicinanza del quale era il campo duchesco. I due eserciti si trovarono divisi da un terreno paludoso, in mezzo al quale passava una strada elevata a guisa d’argine: e tra le paludi s’alzavano qua e là delle macchie poste su un terreno più sodo: il Conte mise in queste degli agguati, e si diede a provocare il nemico. Nel campo duchesco i pareri erano vari: i racconti degli storici lo sono poco meno. Ma l’opinione che pare più comune, è che il Pergola e il Torello, sospettando d’agguati, opinassero di non dar battaglia: che lo Sforza e il Piccinino la volessero a ogni costo. Carlo fu del parere degli ultimi; la diede, e fu pienamente sconfitto. Appena il suo esercito ebbe affrontato il nemico, fu assalito a destra e a sinistra dall’imboscate, e gli furono fatti, secondo alcuni, cinque, secondo altri, otto mila prigionieri. Il comandante fu preso anche lui; gli altri quattro, chi in una maniera, chi nell’altra, si sottrassero.
   Un figlio del Pergola si trovò tra i prigionieri.
   La notte dopo la battaglia, i soldati vittoriosi lasciarono in libertà quasi tutti i prigionieri. I commissari veneti, che seguivano l’esercito, ne fecero delle lagnanze col Conte; il quale domandò a qualcheduno de’ suoi cosa fosse avvenuto de’ prigionieri; ed essendogli risposto che tutti erano stati messi in libertà, meno un quattrocento, ordinò che anche questi fossero rilasciati, secondo l’uso.([15])
   Uno storico che non solo scriveva in que’ tempi, ma aveva militato in quelle guerre, Andrea Redusio, è il solo, per quanto io sappia, che abbia indicata la vera ragione di quest’uso militare d’allora. Egli l’attribuisce al timore che i soldati avevano di veder presto finite le guerre, e di sentirsi gridare dai popoli: alla zappa i soldati.([16])
   I Signori veneti furono punti e insospettiti dal procedere del Conte; ma senza giusta ragione. Infatti, prendendo al soldo un condottiero, dovevano aspettarsi che farebbe la guerra secondo le leggi della guerra comunemente seguite; e non potevano senza indiscrezione pretendere che prendesse il rischioso impegno d’opporsi a un’usanza così utile e cara ai soldati, esponendosi a venire in odio a tutta la milizia, e a privarsi d’ogni appoggio. Avevano bensì ragione di pretender da lui la fedeltà e lo zelo, ma non una devozione illimitata: questa s’accorda solamente a una causa che si abbraccia per entusiasmo o per dovere. Non trovo però che dopo le prime osservazioni de’ commissari, la Signoria abbia fatte col Carmagnola altre lagnanze su questo fatto: non si parla anzi che d’onori e di ricompense.
   Nell’aprile del 1428 fu conclusa tra i Veneziani e il Duca un’altra di quelle solite paci.
   La guerra, risorta nel 1431, non ebbe per il Conte così prosperi cominciamenti come le due passate. Il castellano che comandava in Soncino per il Duca, si finse disposto a cedere per tradimento quel castello al Carmagnola. Questo ci andò con una parte dell’esercito, e cadde in un agguato, dove lasciò prigionieri, secondo il Bigli, secento cavalli e molti fanti, salvandosi lui a stento.
   Pochi giorni dopo, Nicola Trevisani, capitano dell’armata veneta sul Po, venne alle prese coi galeoni del Duca. Il Piccinino e lo Sforza, facendo le viste di voler attaccare il Carmagnola, lo rattennero dal venire in aiuto all’armata veneta, e intanto imbarcarono gran parte delle loro genti di terra sulle navi del Duca. Quando il Carmagnola s’avvide dell’inganno, e corse per sostenere i suoi, la battaglia era vicino all’altra riva. L’armata veneta fu sconfitta, e il capitano di essa fuggì in una barchetta.
   Gli storici veneti accusano qui il Carmagnola di tradimento. Gli storici che non hanno preso il tristo assunto di giustificare i suoi uccisori, non gli danno altra taccia che d’essersi lasciato ingannare da uno stratagemma. Par certo che la condotta del Trevisani fosse imprudente da principio, e irresoluta nella battaglia.([17]) Fu bandito, e gli furono confiscati i beni; «e al capitano generale (Carmagnola), per imputazione di non aver dato favore all’armata, con lettere del Senato fu scritta una lieve riprensione».([18])
   Il giorno 18 d’ottobre, il Carmagnola diede ordine al Cavalcabò, uno de’ suoi condottieri, di sorprender Cremona. Questo riuscì ad occuparne una parte; ma essendosi i cittadini levati a stormo, dovette abbandonare l’impresa, e ritornare al campo.
   Il Carmagnola non credette a proposito d’andar col grosso dell’esercito a sostenere quest’impresa; e mi par cosa strana che ciò gli sia stato imputato a tradimento dalla Signoria. La resistenza, probabilmente inaspettata, del popolo spiega benissimo perché il generale non si sia ostinato a combattere una città che sperava d’occupare tranquillamente per sorpresa: il tradimento non ispiega nulla; giacché non si sa vedere perché il Carmagnola avrebbe ordinata la spedizione, il cattivo esito della quale non fu d’alcun vantaggio per il nemico.
   Ma la Signoria, risoluta, secondo l’espressione del Navagero, di liberarsi del Carmagnola, cercò in qual maniera potesse averlo nelle mani disarmato; e non ne trovò una più pronta né più sicura, che d’invitarlo a Venezia col pretesto di consultarlo sulla pace. Ci andò senza sospetto, e in tutto il viaggio furono fatti onori straordinari a lui, e al Gonzaga che l’accompagnava. Tutti gli storici, anche veneziani, sono d’accordo in questo; pare anzi che raccontino con un sentimento di compiacenza questo procedere, come un bel tratto di ciò che altre volte si chiamava prudenza e virtù politica. Arrivato a Venezia, «gli furono mandati incontro otto gentiluomini, avanti ch’egli smontasse a casa sua, che l’accompagnarono a San Marco».([19]) Entrato che fu nel palazzo ducale, si rimandarono le sue genti, dicendo loro che il Conte si fermerebbe a lungo col doge. Fu arrestato nel palazzo, e condotto in prigione. Fu esaminato da una Giunta, alla quale il Navagero dà nome di Collegio secreto; e condannato a morte, fu, il giorno 5 di maggio del 1432, condotto con le sbarre alla bocca tra le due colonne della Piazzetta, e decapitato. La moglie e una figlia del Conte (o due figlie, secondo alcuni) si trovavano allora in Venezia.
   Nulla d’autentico si ha sull’innocenza o sulla reità di questo grand’uomo. Era da aspettarsi che gli storici veneziani, che volevano scrivere e viver tranquilli, l’avrebbero trovato colpevole. Essi esprimono quest’opinione come una cosa di fatto, e con quella negligenza che è naturale a chi parla in favore della forza. Senza perdersi in congetture, asseriscono che il Carmagnola fu convinto coi tormenti, coi testimoni e con le sue proprie lettere. Di questi tre mezzi di prova il solo che si sappia di certo essere stato adoprato è l’infamissimo primo, quello che non prova nulla.
   Ma oltre la mancanza assoluta di testimonianze dirette storiche, che confermino la reità del Carmagnola, molte riflessioni la fanno parere improbabile. Né i Veneziani hanno rivelato mai quali fossero le condizioni del tradimento pattuito; né da altra parte s’è saputo mai nulla d’un tale trattato. Quest’accusa è isolata nella storia, e non si appoggia a nulla, se non a qualche svantaggio di guerra, il quale anche si spiega senza ricorrere a questa supposizione: e sarebbe una legge stravagante non meno che atroce quella che volesse imputato a perfidia del generale ogni evento infelice. Si badi inoltre all’essere il Conte andato a Venezia senza esitazione, senza riguardi e senza precauzioni: si badi all’aver sempre la Signoria fatto un mistero di questo fatto, malgrado la taccia d’ingratitudine e d’ingiustizia che gli si dava in Italia; si badi alla crudele precauzione di mandare il Conte al supplizio con le sbarre alla bocca, precauzione tanto più da notarsi, in quanto s’adoprava con uno che non era veneziano, e non poteva aver partigiani nel popolo; si badi finalmente al carattere noto del Carmagnola e del Duca di Milano, e si vedrà che l’uno e l’altro ripugnano alla supposizione d’un trattato di questa sorte tra di loro. Una riconciliazione segreta con un uomo che gli era stato orribilmente ingrato, e che aveva tentato di farlo ammazzare; un patto di far la guerra da stracco, anzi di lasciarsi battere, non s’accordano con l’animo impetuoso, attivo, avido di gloria del Carmagnola. Il Duca non era perdonatore; e il Carmagnola che lo conosceva meglio d’ogni altro, non avrebbe mai potuto credere a una riconciliazione stabile e sicura con lui. Il disegno di ritornare con Filippo offeso non poteva mai venire in mente a quell’uomo che aveva esperimentate le retribuzioni di Filippo beneficato.
   Ho cercato se negli storici contemporanei si trovasse qualche traccia d’un’opinione pubblica, diversa da quella che la Signoria veneta ha voluto far prevalere; ed ecco ciò che n’ho potuto raccogliere.
   Un cronista di Bologna, dopo aver raccontata la fine del Carmagnola, soggiunge: «Dissesi che questo hanno fatto perché egli non faceva lealmente per loro la guerra contra il Duca di Milano, come egli doveva, e che s’intendeva col Duca. Altri dicono che, come vedevano tutto lo Stato loro posto nelle mani del Conte, capitano d’un tanto esercito, parendo loro di stare a gran pericolo, e non sapendo con qual miglior modo potessero deporlo, han trovato cagione di tradimento contra di lui. Iddio voglia che abbiano fatto saviamente; perché par pure, che per questo la Signoria abbia molto diminuita la sua possanza, ed esaltata quella del Duca di Milano.»([20])
   E il Poggio: «Certuni dicono che non abbia meritata la morte con delitto di sorte veruna; ma che ne fosse cagione la sua superbia, insultante verso i cittadini veneti, e odiosa a tutti.»([21])
   Il Corio poi, scrittore non contemporaneo, ma di poco posteriore, dice così: «Gli tolsero il valsente di più di trecento migliaia di ducati, i quali furono piuttosto cagione della sua morte che altro.»
   Senza dar molto peso a quest’ultima congettura, mi pare che le prime due, cioè il timore e le vendette private dell’amor proprio, bastino, per que’ tempi, a dare di questo avvenimento una spiegazione probabile, e certo più probabile di un tradimento contrario all’indole e all’interesse dell’uomo a cui fu imputato.
   Tra quegli storici moderni, che non adottando ciecamente le tradizioni antiche, le hanno esaminate con un libero giudizio, uno solo, ch’io sappia, si mostrò persuaso affatto che il Carmagnola sia stato colpito da una giusta sentenza. Questo è il Conte Verri; ma basta leggere il passo della sua Storia, che si riferisce a questo avvenimento, per esser subito convinti che la sua opinione è venuta dal non aver lui voluto informarsi esattamente de’ fatti sui quali andava stabilita. Ecco le sue parole: «O foss’egli allontanato, per una ripugnanza dell’animo, dal portare così la distruzione ad un Principe, dal quale aveva un tempo ottenuto gli onori, e sotto del quale aveva acquistata la celebrità; ovvero foss’egli ancora nella fiducia, che umiliato il Duca venisse a fargli proposizioni di accomodamento, e gli sacrificasse i meschini nemici, che avevano ardito di nuocergli, cioè i vilissimi cortigiani suoi; o qualunque ne fosse il motivo, il Conte Francesco Carmagnola, malgrado il dissenso dei Procuratori veneti, e malgrado la decisa loro opposizione, volle rimandare disarmati bensì, ma liberi al Duca tutti i generali ed i soldati numerosissimi, che aveva fatti prigionieri nella vittoria del giorno 11 di ottobre 1427... Il seguito delle sue imprese fece sempre più palese il suo animo; poiché trascurò tutte le occasioni, e lentamente progredendo lasciò sempre tempo ai ducali di sostenersi. In somma giunse a tale evidenza la cattiva fede del Conte Francesco Carmagnola, che, venne, dopo formale processo, decapitato in Venezia... come reo di alto tradimento.» Fa stupore il vedere addotto in prova della reità d’un uomo in giudizio segreto di que’ tempi, da uno storico che ne ha tanto conosciuta l’iniquità, e che tanto si studia di farla conoscere a’ suoi lettori. In quanto al fatto de’ prigionieri, ognuno vede gli errori della relazione che ho trascritta. Il Conte di Carmagnola non rimandò liberi tutti i soldati, ma quattrocento soli; non rimandò i generali, perché di questi non fu preso che il Malatesti, e fu ritenuto; non è esatto il dire che i soldati fossero rimandati al Duca: furono semplicemente messi in libertà. Non vedo poi perché si entri in congetture per ispiegare la condotta del Carmagnola in questa occasione, quando la storia ne dà per motivo un’usanza comune.
   La sorte del Carmagnola fece un gran rumore in tutta l’Italia; e pare che in particolare i Piemontesi la sentissero più acerbamente, e ne serbassero memoria, come lo indica il seguente aneddoto raccontato dal Denina.
   Il primo sospetto che i Veneziani ebbero del segreto della lega di Cambrai venne dalle relazioni d’un loro agente di Milano, il quale era venuto a sapere «che un Carlo Giuffredo Piemontese che si trovava fra i Segretarj di Stato del Governo di Milano ai servigi del Re Luigi, andava fra i suoi famigliari dicendo essere venuto il tempo in cui sarebbesi abbondantemente vendicata la morte del Conte Francesco Carmagnola suo compatriotto».([22])
   Non ho citato questo tratto per applaudire a un sentimento di vendetta, e di patriottismo municipale, ma come un indizio del caso che si faceva di questo gran capitano in quella nobile e bellicosa parte d’Italia, che lo considerava più specialmente come suo.
   A quegli avvenimenti che si sono scelti per farne il materiale della presente Tragedia, s’è conservato il loro ordine cronologico, e le loro circostanze essenziali; se se ne eccettui l’aver supposto accaduto in Venezia l’attentato contra la vita del Carmagnola, quando in vece accadde in Treviso.
   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   TRAGEDIA
   *
   PERSONAGGI STORICI
   Il Conte di Carmagnola.
   Antonietta Visconti, sua moglie.
   Una loro Figlia, a cui nella tragedia si è attribuito il nome di Matilde.
   Francesco Foscari, Doge di Venezia.
   Condottieri al soldo dei Veneziani:
   Giovanni Francesco Gonzaga,
   Paolo Francesco Orsini,
   Nicolò Da Tolentino,
   C ondottieri al soldo del Duca di Milano:
   Carlo Malatesti,
   Angelo Della Pergola,
   Guido Torello,
   Nicolò Piccinino, a cui nella tragedia si è attribuito il cognome di Fortebraccio,
   Francesco Sforza,
   Pergola Figlio.
   PERSONAGGI IDEALI
   MARCO, Senatore Veneziano.
   MARINO, uno de’ Capi del Consiglio dei Dieci.
   PRIMO COMMISSARIO veneto nel campo.
   SECONDO COMMISSARIO.
   UN SOLDATO Del CONTE.
   UN SOLDATO prigioniero.
   senatori, condottieri, soldati, prigionieri, guardie
   ATTO PRIMO
   SCENA I
   Sala del Senato, in Venezia.
   IL DOGE e SENATORI seduti.
   IL DOGE
   È giunto il fin de’ lunghi dubbi, è giunto,
   nobiluomini, il dì che statuito
   fu a risolver da voi. Su questa lega,
   a cui Firenze con sì caldi preghi
   incontro il Duca di Milan c’invita,                                    5
   oggi il partito si porrà. Ma pria,
   se alcuno è qui cui non sia noto ancora
   che vile opra di tenebre e di sangue
   sugli occhi nostri fu tentata, in questa
   stessa Venezia, inviolato asilo   10
   di giustizia e di pace, odami: al nostro
   deliberar rileva assai che’ alcuno
   qui non l’ignori. Un fuoruscito al Conte
   di Carmagnola insidiò la vita;
   fallito è il colpo, e l’assassino è in ceppi.                         15
   Mandato egli era; e quei che a ciò mandollo
   ei l’ha nomato, ed è... quel Duca istesso
   di cui qui abbiam gli ambasciatori ancora
   a chieder pace, a cui più nulla preme
   che la nostra amistà. Tale arra intanto                             20
   ei ci dà della sua. Taccio la vile
   perfidia della trama, e l’onta aperta
   che in un nostro soldato a noi vien fatta.
   Due sole cose avverto: egli odia dunque
   veracemente il Conte; ella è fra loro                                25
   chiusa ogni via di pace; il sangue ha stretto
   tra lor d’eterna inimicizia un patto.
   L’odia... e lo teme: ei sa che il può dal trono
   quella mano sbalzar che in trono il pose;
   e disperando che più a lungo in questa                            30
   inonorata, improvida, tradita
   pace restar noi consentiamo, ei sente
   che sia per noi quest’uom; questo tra i primi
   guerrier d’Italia il primo, e, ciò che meno
   forse non è, delle sue forze istrutto                                  35
   come dell’arti sue; questo che il lato
   saprà tosto trovargli ove più certa,
   e più mortal sia la ferita. Ei volle
   spezzar quest’arme in nostra mano; e noi
   adoperiamla, e tosto. Onde possiamo                             40
   un più fedele e saggio avviso in questo,
   che dal Conte aspettarci? Io l’invitai;
   piacevi udirlo?
   (segni di adesione)
   S’introduca il Conte.
   SCENA II
   IL CONTE, e detti.
   IL DOGE
   Conte di Carmagnola, oggi la prima
   occasion s’affaccia in che di voi                                      45
   si valga la Repubblica, e vi mostri
   in che conto vi tiene: in grave affare
   grave consiglio ci abbisogna. Intanto
   tutto per bocca mia questo Senato
   si rallegra con voi da sì nefando                                      50
   periglio uscito; e protestiam che a noi
   fatta è l’offesa, e che sul vostro capo
   or più che mai fia steso il nostro scudo,
   scudo di vigilanza e di vendetta.
   IL CONTE
   Serenissimo Doge, ancor null’altro                                 55
   io per questa ospital terra, che ardisco
   nomar mia patria, potei far che voti.
   Oh! mi sia dato alfin questa mia vita,
   pur or sottratta al macchinar de’ vili,
   questa che nulla or fa che giorno a giorno                       60
   aggiungere in silenzio, e che guardarsi
   tristamente, tirarla in luce ancora,
   e spenderla per voi, ma di tal modo,
   che dir si possa un dì, che in loco indegno
   vostr’alta cortesia posta non era.                                    65
   IL DOGE
   Certo gran cose, ove il bisogno il chieda,
   ci promettiam da voi. Per or ci giovi
   soltanto il vostro senno. In suo soccorso
   contro il Visconte l’armi nostre implora
   già da lungo Firenze. Il vostro avviso                              70
   nella bilancia che teniam librata
   non farà piccol peso.
   IL CONTE
   E senno e braccio
   e quanto io sono è cosa vostra: e certo
   se mai fu caso in cui sperar m’attenti
   che a voi pur giovi un mio consiglio, è questo.                 75
   E lo darò: ma pria mi sia concesso
   di me parlarvi in breve, e un core aprirvi,
   un cor che agogna sol d’esser ben noto.
   IL DOGE
   Dite: a questa adunanza indifferente
   cosa che a cor vi stia giunger non puote.                         80
   IL CONTE
   Serenissimo Doge, Senatori;
   io sono al punto in cui non posso a voi
   esser grato e fedel, s’io non divengo
   nemico all’uom che mio signor fu un tempo.
   S’io credessi che ad esso il più sottile                             85
   vincolo di dover mi leghi ancora,
   l’ombra onorata delle vostre insegne
   fuggir vorrei, viver nell’ozio oscuro
   vorrei, prima che romperlo, e me stesso
   far vile agli occhi miei. Dubbio veruno                             90
   sul partito che presi in cor non sento,
   perch’egli è giusto ed onorato: il solo
   timor mi pesa del giudizio altrui.
   Oh! beato colui cui la fortuna
   così distinte in suo cammin presenta                                95
   le vie del biasmo e dell’onor, ch’ei puote
   correr certo del plauso, e non dar mai
   passo ove trovi a malignar l’intento
   sguardo del suo nemico. Un altro campo
   correr degg’io, dove in periglio sono                              100
   di riportar, forza è pur dirlo, il brutto
   nome d’ingrato, l’insoffribil nome
   di traditor. So che de’ grandi è l’uso
   valersi d’opra ch’essi stiman rea,
   e profondere a quel che l’ha compita                              105
   premi e disprezzo, il so; ma io non sono
   nato a questo; e il maggior, premio che bramo,
   il solo, egli è la vostra stima, e quella
   d’ogni cortese; e, arditamente il dico,
   sento di meritarla. Attesto il vostro                                 110
   sapiente giudizio, o Senatori,
   che d’ogni obbligo sciolto inverso il Duca
   mi tengo, e il sono. Se volesse alcuno
   de’ benefizi che tra noi son corsi
   pareggiar le ragioni, è noto al mondo                              115
   qual rimarrebbe il debitor dei due.
   Ma di ciò nulla: io fui fedele al Duca
   fin che fui seco, e nol lasciai che quando
   ei mi v’astrinse. Ei mi balzò dal grado
   col mio sangue acquistato: invan tentai                            120
   al mio signor lagnarmi. I miei nemici
   fatto avean siepe intorno al trono: allora
   m’accorsi alfin che la mia vita anch’essa
   stava in periglio: a ciò non gli diei tempo.
   Ché la mia vita io voglio dar, ma in campo,                     125
   per nobil causa, e con onor, non preso
   nella rete de’ vili. Io lo lasciai,
   e a voi chiesi un asilo; e in questo ancora
   ei mi tese un agguato. Ora a costui
   più nulla io deggio; di nemico aperto                               130
   nemico aperto io sono. All’util vostro
   io servirò, ma franco e in mio proposto
   deliberato, come quei ch’è certo
   che giusta cosa imprende.
   IL DOGE
   E tal vi tiene
   questo Senato: già tra il Duca e voi                                 135
   ha giudicato irrevocabilmente
   Italia tutta. Egli la vostra fede
   ha liberata, a voi l’ha resa intatta,
   qual gliela deste il primo giorno. È nostra
   or questa fede; e noi saprem tenerne                              140
   ben altro conto. Or d’essa un primo pegno
   il vostro schietto consigliar ci sia.
   IL CONTE
   Lieto son io che un tal consiglio io possa
   darvi senza esitanza. Io tengo al tutto
   necessaria la guerra, e della guerra,                                145
   se oltre il presente è mai concesso all’uomo
   cosa certa veder, certo l’evento;
   tanto più, quanto fien l’indugi meno.
   A che partito è il Duca? A mezzo è vinta
   da lui Firenze; ma ferito e stanco                                    150
   il vincitor; voti gli erari: oppressi
   dal terror, dai tributi i cittadini
   pregan dal ciel su l’armi loro istesse
   le sconfitte e le fughe. Io li conosco,
   e conoscer li deggio: a molti in mente                              155
   dura il pensier del glorioso, antico
   viver civile; e subito uno sguardo
   rivolgon di desio là dove appena
   d’un qualunque avvenir si mostri un raggio,
   frementi del presente e vergognosi.                                 160
   Ei conosce il periglio; indi l’udite
   mansueto parlarvi; indi vi chiede
   tempo soltanto de sbranar la preda
   che già tiensi tra l’ugne, e divorarla.
   Fingiam che glielo diate: ecco mutata                              165
   la faccia delle cose; egli soggioga
   senza dubbio Firenze; ecco satolle
   le costui schiere col tesor de’ vinti,
   e più folte e anelanti a nove imprese.
   Qual prence allor dell’alleanza sua                                  170
   far rifiuto oseria? Beato il primo
   ch’ei chiamerebbe amico! Egli sicuro
   consulterebbe e come e quando a voi
   mover la guerra, a voi rimasti soli.
   L’ira, che addoppia l’ardimento al prode                        175
   che si sente percosso, ei non la trova
   che ne’ prosperi casi: impaziente
   d’ogni dimora ove il guadagno è certo,
   ma ne’ perigli irresoluto: a’ suoi
   soldati ascoso, del pugnar non vuole                               180
   fuor che le prede. Ei nella rocca intanto,
   o nelle ville rintanato attende
   a novellar di cacce e di banchetti,
   a interrogar tremando un indovino.
   Ora è il tempo di vincerlo: cogliete                                  185
   questo momento: ardir prudenza or fia.
   IL DOGE
   Conte, su questo fedel vostro avviso
   tosto il Senato prenderà partito;
   ma il segua, o no, v’è grato; e vede in esso,
   non men che il senno, il vostro amor per noi.                   190
   (parte il Conte)
   SCENA III
   IL DOGE, e SENATORI
   IL DOGE
   Dissimil certo da sì nobil voto
   nessun s’aspetta il mio. Quando il consiglio
   più generoso è il più sicuro, in forse
   chi potria rimaner? Porgiam la mano
   al fratello che implora: un sacro nodo                              195
   stringe i liberi Stati: hanno comuni
   tra lor rischi e speranze; e treman tutti
   dai fondamenti al rovinar d’un solo.
   Provocator dei deboli, nemico
   d’ognun che schiavo non gli sia, la pace                          200
   con tanta istanza a che ci chiede il Duca?
   Perché il momento della guerra ei vuole
   sceglierlo, ei solo; e non è questo il suo.
   Il nostro egli è, se non ci falla il senno,
   né l’animo. Ei ci vuole ad uno ad uno;                             205
   andiamgli incontro uniti. Ah! saria questa
   la prima volta che il Leon giacesse
   al suon delle lusinghe addormentato.
   No; fia tentato invan. Pongo il partito
   che si stringa la lega, e che la guerra                                210
   tosto al Duca s’intimi, e delle nostre
   genti da terra abbia il comando il Conte.
   MARINO
   Contro sì giusta e necessaria guerra
   io non sorgo a parlar; questo sol chiedo,
   che il buon successo ad accertar si pensi.                        215
   La metà dell’impresa è nella scelta
   del capitano. Io so che vanta il Conte
   molti amici tra noi; ma d’una cosa
   mi rendo certo, che nessun di questi
   l’ama più della patria; e per me, quando                          220
   di lei si tratti, ogni rispetto è nulla.
   Io dico, e duolmi che di fronte io deggia,
   serenissimo Doge, oppormi a voi,
   non è il duce costui quale il richiede
   la gravità, l’onor di questo Stato.                                    225
   Non cercherò perché lasciasse il Duca.
   Ei fu l’offeso; e sia pur ver: l’offesa
   è tal che accordo non può darsi; e questo
   consento: io giuro nelle sue parole.
   Ma queste sue parole importa assai                                230
   considerarle, perché tutto in esse
   ei s’è dipinto; e governar sì ombroso,
   sì delicato e violento orgoglio,
   o Senatori, non mi par che sia
   minor pensier della guerra istessa.                                   235
   Finor fu nostra cura il mantenerci
   la riverenza de’ soggetti; or altro
   studio far si dovria, come costui
   riverir degnamente. E quando egli abbia
   la man nell’elsa della nostra spada,                                 240
   potrem noi dir d’aver creato un servo?
   Dovrà por cura di piacergli ognuno
   di noi? Se nasce un disparer, fia degno
   che nell’arti di guerra il voler nostro
   a quel d’un tanto condottier prevalga?                            245
   S’egli erra, e nostra è dell’error la pena,
   ché invincibil nol credo, io vi domando
   se fia concesso il farne lagno; e dove
   si riscotan per questo onte e dispregi,
   che far? soffrirli? Non v’aggrada, io stimo,                      250
   questo partito; risentirci? e dargli
   occasion che, in mezzo all’opra, e nelle
   più difficili strette ei ci abbandoni
   sdegnato, e al primo altro signor che il voglia,
   forse al nemico, offra il suo braccio, e sveli                     255
   quanto di noi pur sa, magnificando
   la nostra sconoscenza, e i suoi gran merti?
   IL DOGE
   Il Conte un prence abbandonò; ma quale?
   un che da lui tenea lo Stato, e a cui
   quindi ei minor non potea mai stimarsi;                            260
   un da pochi aggirato, e questi vili;
   timido e stolto, che non seppe almeno
   il buon consiglio tor della paura,
   nasconderla nel core, e starsi all’erta;
   ma che il colpo accennò pria di scagliarlo:                       265
   tale è il signor che inimicossi il Conte.
   Ma, lode al ciel, nulla in Venezia io vedo
   che gli somigli. Se destrier, correndo,
   scosse una volta un furibondo e stolto
   fuor dell’arcione, e lo gettò nel fango;                             270
   non fia per questo che salirlo ancora
   un cauto e franco cavalier non voglia.
   MARINO
   Poiché sì certo è di quest’uomo il Doge,
   più non m’oppongo; e questo a lui sol chiedo:
   vuolsi egli far mallevador del Conte?                               275
   IL DOGE
   A sì preciso interrogar, preciso
   risponderò: mallevador pel Conte,
   né per altr’uom che sia, certo, io non entro;
   dell’opre mie, de’ miei consigli il sono:
   quando sien fidi, ei basta. Ho io proposto                       280
   che guardia al Conte non si faccia, e a lui
   si dia l’arbitrio dello Stato in mano?
   Ei diritto, anderà; tale io diviso.
   Ma s’ei si volge al rio sentier, ci manca
   occhio che tosto ce ne faccia accorti,                              285
   e braccio che invisibile il raggiunga?
   MARCO
   Perché i princìpi di sì bella impresa
   contristar con sospetti? E far disegni
   di terrori e di pene, ove null’altro
   che lodi e grazie può aver luogo? Io taccio                      290
   che all’util suo sola una via gli è schiusa;
   lo star con noi. Ma deggio dir qual cosa
   dee sovra ogni altra far per lui fidanza?
   La gloria ond’egli è già coperto, e quella
   a cui pur anco aspira; il generoso,                                   295
   il fiero animo suo. Che un giorno ei voglia
   dall’altezza calar de’ suoi pensieri,
   e riporsi tra i vili, esser non puote.
   Or, se prudenza il vuol, vegli pur l’occhio;
   ma dorma il cor nella fiducia; e poi                                  300
   che in così giusta e grave causa, un tanto
   dono ci manda Iddio; con quella fronte,
   e con quel cor che si riceve un dono,
   sia da noi ricevuto.
   MOLTI SENATORI
   Ai voti, ai voti!
   IL DOGE
   Si raccolgano i voti; e ognun rammenti                            305
   quanto rilevi che di qui non esca
   motto di tal deliberar, né cenno
   che presumer lo faccia. In questo Stato
   pochi il segreto hanno tradito, e nullo
   fu tra quei pochi che impunito andasse.                           310
   SCENA IV
   Casa del Conte.
   IL CONTE
   Profugo, o condottiero. O come il vecchio
   guerrier nell’ozio i giorni trar, vivendo
   della gloria passata, in atto sempre
   di render grazie e di pregar, protetto
   dal braccio altrui, che un dì potria stancarsi                     315
   e abbandonarmi; o ritornar sul campo,
   sentir la vita, salutar di nuovo
   la mia fortuna, delle trombe al suono
   destarmi, comandar; questo è il momento
   che ne decide. Eh! se Venezia in pace                            320
   riman, degg’io chiuso e celato ancora
   in questo asilo rimaner, siccome
   l’omicida nel tempio? E chi d’un regno
   fece il destin, non potrà farsi il suo?
   Non troverò tra tanti prenci, in questa                             325
   divisa Italia, un sol che la corona,
   onde il vil capo di Filippo splende,
   ardisca invidiar? che si ricordi
   ch’io l’acquistai, che dalle man di dieci
   tiranni io la strappai, ch’io la riposi                                  330
   su quella fronte, ed or null’altro agogno
   che ritorla all’ingrato, e farne un dono
   a chi saprà del braccio mio valersi?
   SCENA V
   MARCO, e IL CONTE
   IL CONTE
   O dolce amico; ebben qual nova arrechi?
   MARCO
   La guerra è risoluta, e tu sei duce.                                   335
   IL CONTE
   Marco, ad impresa io non m’ accinsi mai
   con maggior cor che a questa: una gran fede
   poneste in me: ne sarò degno, il giuro.
   Il giorno è questo che del viver mio
   ferma il destin: poi che quest’alma terra                           340
   m’ha nel suo glorioso antico grembo
   accolto, e dato di suo figlio il nome,
   esserlo io vo’ per sempre; e questo brando
   io consacro per sempre alla difesa
   e alla grandezza sua.
   MARCO
   Dolce disegno!                           345
   non soffra il ciel che la fortuna il rompa...
   o tu medesmo.
   IL CONTE
   Io? come?
   MARCO
   Al par di tutti
   i generosi, che giovando altrui
   nocquer sempre a sé stessi, e superate
   tutte le vie delle più dure imprese,                                   350
   caddero a un passo poi, che facilmente
   l’ultimo de’ mortali avria varcato.
   Credi ad un uom che t’ama: i più de’ nostri
   ti sono amici; ma non tutti il sono.
   Di più non dico, né mi lice; e forse                                  355
   troppo già dissi. Ma la mia parola
   nel fido orecchio dell’amico stia,
   come nel tempio del mio cor, rinchiusa.
   IL CONTE
   Forse io l’ignoro? E forse ad uno ad uno
   non so quai siano i miei nemici?
   MARCO
   E sai                          360
   chi te gli ha fatti? In pria l’esser tu tanto
   maggior di loro, indi lo sprezzo aperto
   che tu ne festi in ogni incontro. Alcuno
   non ti nocque finor; ma chi non puote
   nocer col tempo? Tu non pensi ad essi,                           365
   se non allor che in tuo cammin li trovi;
   ma pensan essi a te, più che non credi.
   Spregia il grande, ed obblia; ma il vil si gode
   nell’odio. Or tu non irritarlo: cerca
   di spegnerlo; tu il puoi forse. Consiglio                            370
   di vili arti ch’io stesso a sdegno avrei,
   io non ti do, né tal da me l’aspetti.
   Ma tra la noncuranza e la servile
   cautela avvi una via; v’ha una prudenza
   anche pei cor più nobili e più schivi;                                375
   v’ha un’arte d’acquistar l’alme volgari,
   senza discender fino ad esse: e questa
   nel senno tuo, quando tu vuoi, la trovi.
   IL CONTE
   Troppo è il tuo dir verace: il tuo consiglio
   le mille volte a me medesmo io il diedi;                            380
   e sempre all’uopo ei mi fuggì di mente;
   e sempre appresi a danno mio che dove
   semina l’ira, il pentimento miete.
   Dura scola ed inutile! Alfin stanco
   di far leggi a me stesso, e trasgredirle,                             385
   tra me fermai che, s’egli è mio destino
   ch’io sia sempre in tai nodi avviluppato
   che mestier faccia a distrigarli appunto
   quella virtù che più mi manca, s’ella
   è pur virtù; se è mio destin che un giorno                         390
   io sia colto in tai nodi, e vi perisca;
   meglio è senza riguardi andargli incontro.
   Io ne appello a te stesso: i buoni mai
   non fur senza nemici, e tu ne hai dunque.
   E giurerei che un sol non è tra loro                                  395
   cui tu degni, non dico accarezzarlo,
   ma non dargli a veder che lo dispregi.
   Rispondi.
   MARCO
   È ver: se v’ha mortal di cui
   la sorte invidii, è sol colui che nacque
   in luoghi e in tempi ov’uom potesse aperto                      400
   mostrar l’animo in fronte, e a quelle prove
   solo trovarsi ove più forza è d’uopo
   che accorgimento: quindi, ove convenga
   simular, non ti faccia maraviglia
   che poco esperto io sia. Pensa per altro                          405
   quanto più m’è concesso impunemente
   fallire in ciò che a te; che poche vie
   al pugnal d’un nemico offre il mio petto;
   che me contra i privati odii assecura
   la pubblica ragion; ch’io vesto il saio                               410
   stesso di quei che han la mia sorte in mano.
   Ma tu stranier, tu condottiero al soldo
   di togati signor, tu cui lo Stato
   dà tante spade per salvarlo, e niuna
   per salvar te... fa che gli amici tuoi                                  415
   odan sol le tue lodi; e non dar loro
   la trista cura di scolparti. Pensa
   che felici non son, se tu nol sei.
   Che dirò più? Vuoi che una corda io tocchi,
   che ancor più addentro nel tuo cor risoni?                       420
   Pensa alla moglie tua, pensa alla figlia
   a cui tu se’ sola speranza: il cielo
   dié loro un’alma per sentir la gioia,
   un’alma che sospira i dì sereni,
   ma che nulla può far per conquistarli.                              425
   Tu il puoi per esse; e lo vorrai. Non dire
   che il tuo destin ti porta; allor che il forte
   ha detto: io voglio, ei sente esser più assai
   signor di sé che non pensava in prima.
   IL CONTE
   Tu hai ragione. Il ciel si prende al certo                           430
   qualche cura di me, poiché m’ha dato
   un tale amico. Ascolta; il buon successo
   potrà, spero, placar chi mi disama:
   tutto in letizia finirà. Tu intanto
   se cosa odi di me che ti dispiaccia,                                 435
   l’indole mia ne incolpa, un improvviso
   impeto primo, ma non mai l’obblio
   di tue parole.
   MARCO
   Or la mia gioia è intera.
   Va, vinci, e torna. Oh come atteso e caro
   verrà quel messo che la gloria tua                                   440
   con la salute della patria annunzi!
 
   FINE DELL’ATTO PRIMO
 
   ATTO SECONDO
   SCENA I
   Parte, del campo ducale con tende.
   MALATESTI e PERGOLA
   PERGOLA
   Sì, condottier; come ordinaste, in pronto
   son le mie bande. A voi commise il Duca
   l’arbitrio della guerra: io v’ho ubbidito,
   ma con dolor; ve ne scongiuro ancora,
   non diam battaglia.
   MALATESTI
   Anzian d’anni e di fama,                5
   o Pergola, qui siete; io sento il peso
   del vostro voto; ma cangiar non posso
   il mio. Voi lo vedete; il Carmagnola
   ci provoca ogni dì: quasi ad insulto
   sugli occhi nostri alfin Maclodio ha stretto:                      10
   e due partiti ci rimangon soli;
   o lui cacciarne, o abbandonar la terra,
   che saria danno e scorno.
   PERGOLA
   A pochi è dato,
   a pochi egregi il dubitar di novo,
   quando han già detto: ell’è così. S’io parlo                      15
   è che tale vi tengo. Italia forse
   mai da’ barbari in poi non vide a fronte
   due sì possenti eserciti: ma il nostro
   l’ultimo sforzo è di Filippo. In ogni
   fatto di guerra entra fortuna, e sempre                             20
   vuol la sua parte: chi nol sa? Ma quando
   ne va il tutto, o Signore, allor non vuolsi
   dargliene più ch’ella non chiede; e questo
   esercito con cui tutto possiamo
   salvar, ma che perduto in una volta                                 25
   mai più rifar non si potria, non dèssi
   come un dado gittarlo ad occhi chiusi,
   avventurarlo in un sì piccol campo,
   e in un campo mal noto, e quel che è peggio
   noto al nemico. Ei qui ci trasse: un torto                          30
   argin divide le due schiere: a destra
   e a sinistra paludi, in esse sparsi
   i suoi drappelli; e noi fuori de’ nostri
   alloggiamenti non teniamo un palmo
   pur di terren. Credete ad un che l’arti                             35
   conosce di costui, che ha combattuto
   al fianco suo: qui c’è un’insidia. Forse
   la miglior via di guerreggiar quest’uomo
   saria tenerlo a bada, aspettar tempo,
   tanto che alcun dei duci ai quali è sopra                          40
   prendesse a noia il suo superbo impero;
   e il fascio ch’egli or nella mano ha stretto
   si rallentasse alfin. Pur, se a giornata
   venir si deve, non è questo il loco:
   usciam di qui, scegliamo un campo noi,                           45
   tiriam quivi il nemico: ivi in un giorno,
   senza svantaggio almanco, si decida.
 
   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   MALATESTI
   Due grandi schiere a fronte stanno; e grande
   fia la battaglia: d’una tale appunto
   abbisogna Filippo. A questi estremi                                50
   a poco a poco ei venne, e coi consigli
   che or proponete: a trarnelo, fia d’uopo
   appigliarci agli opposti. Il rischio vero
   sta nell’indugio; e nel mutare il campo
   rovina certa. Chi sapria dir quanto                                  55
   di numero e di cor scemato ei fia,
   pria che si ponga altrove? Ora egli è quale
   bramar lo puote un capitan; con esso
   tutto lice tentar.
 
   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   SCENA II
   SFORZA, FORTEBRACCIO, e detti.
   MALATESTI
   Ditelo, o Sforza,
   e Fortebraccio; voi giungete in tempo:                             60
   ditelo voi, come trovaste il campo?
   Che possiamo sperarne?
   SFORZA
   Ogni gran cosa.
   Quando gli ordini udir, quando lor parve
   che una battaglia si prepari, io vidi
   un feroce tripudio: alla chiamata                                      65
   esultando venièno, e col sorriso
   si fean cenno a vicenda. E quando io corsi
   entro le file, ad ogni schiera un grido
   s’alzava; ognuno in me fissando il guardo
   parea dicesse: o condottier, v’intendo.                            70
   FORTEBRACCIO
   E tai son tutti: allor ch’io venni a’ miei,
   tutti mi furo intorno. Un mi dicea:
   quando udremo le trombe? Altri: noi siamo
   stanchi d’esser beffati; e tutti ad una
   la battaglia chiedean, come già certi                                75
   dell’ottenerla, e dubbi sol del quando.
   Ebben, compagni, io rispondea, se il segno
   presto s’udrà, mi date voi parola
   di vincere con me? Gli elmi levati
   sull’aste, un grido universal d’assenso                             80
   fu la risposta, ond’io gioisco ancora.
   E a tai soldati ci venia proposto
   d’intimar la ritratta? e che alle mani,
   che già posate sulle spade aspettano
   l’ordin di sguainarle e di ferire,                                        85
   si comandasse di levar le tende?
   Chi fronte avria di presentarsi ad essi
   con tal ordine ormai?
   PERGOLA
   Dal parlar vostro
   un novo modo di milizia imparo;
   che i soldati comandino, e che i duci                               90
   ubbidiscano.
   FORTEBRACCIO
   O Pergola, i soldati
   a cui capo son io, fur da quel Braccio
   disciplinati, che per tutto ancora
   con maraviglia e con terror si noma;
   e non son usi a sostener gli scherni                                  95
   dell’inimico.
   PERGOLA
   Ed io conduco genti
   da me, qual ch’io mi sia, disciplinate;
   e sono avvezze ad aspettar la voce
   del condottiero, ed a fidarsi in lui.
   MALATESTI
   Dimentichiamo or noi che numerati                                 100
   sono i momenti, e non ne resta alcuno
   per le gare private?
 
   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   SCENA III
   TORELLO, e detti.
   SFORZA
   Ebben, Torello,
   siete mutato di parer? Vedeste
   l’animo ardente de’ soldati?
   TORELLO
   Il vidi;
   udii le grida del furor, le grida                                         105
   della fiducia e del coraggio; e il viso
   rivolsi altrove, onde nessun dei prodi
   vi leggesse il pensier che mal mio grado
   vi si pingeva: era il pensier che false
   son quelle gioie e brevi; era il pensiero                            110
   del valor che si perde. Io cavalcai
   lungo tutta la fronte: io tesi il guardo,
   quanto lunge potei; rividi quelle
   macchie che sorgon qua e là dal suolo
   uliginoso che la via fiancheggia:                                       115
   là son gli agguati, il giurerei. Rividi
   quel doppio cinto di muniti carri,
   onde assiepato è del nemico il campo.
   Se l’urto primo ei sostener non puote,
   ha una ritratta ove sfuggirlo e uscirne                               120
   preparato al secondo. Un novo è questo
   trovato di costui, per torre ai suoi
   il pensier primo che s’affaccia ai vinti,
   il pensier della fuga. Ad atterrarlo
   due colpi è d’uopo: ei con un sol ne atterra.                    125
   Perché, non giova chiuder gli occhi al vero,
   non son più quelle guerre, in cui pe’ figli
   e per le donne e per la patria terra
   e per le leggi che la fan sì cara,
   combatteva il soldato; in cui pensava                              130
   il capitano a statuirgli un posto,
   egli a morirvi. A mercenarie genti
   noi comandiamo, in cui più di leggieri
   trovi il furor che la costanza: e’ corrono
   volonterosi alla vittoria incontro;                                     135
   ma s’ella tarda, se son posti a lungo
   tra la fuga e la morte, ah! dubbia è troppo
   la scelta di costoro. E questo evento
   più che tutt’altro antiveder ci è forza.
   Vil tempo in cui tanto al comando cresce                        140
   difficoltà, quanto la gloria scema!
   Io lo ripeto, non è questo un campo
   di battaglia per noi.
   MALATESTI
   Dunque?
   TORELLO
   Si muti.
   Non siam pari al nemico; andiamo in luogo
   dove lo siam.
   MALATESTI
   Così Maclodio a lui                                145
   lascerem quasi in dono? I valorosi,
   che vi son chiusi, non potran tenersi
   più che due giorni.
   TORELLO
   Il so; ma non si tratta
   né d’un presidio qui, né d’una terra;
   trattasi dello Stato.
   SFORZA
   E di che mai                                  150
   se non di terre si compon lo Stato?
   E quelle che indugiando, ad una ad una
   già lasciammo sfuggir, quante son elle?
   Casal, Bina, Quinzano e... e se vi piace
   noveratele voi, ché in tal pensiero                                   155
   troppo caldo io mi sento. Il nobil manto,
   che a noi fidato ha il Duca, a brano a brano
   soffriam così che in nostra man si scemi,
   e che a lui messo omai da noi non giunga
   che una ritratta non gli annunzi. Intanto                            160
   superbisce il nemico, e ai nostri indugi
   sfacciato insulta.
   TORELLO
   E questo è segno, o Sforza,
   ch’ei brama una battaglia.
   SFORZA
   Oh, che puot’egli
   bramar di più, che innanzi a sé cacciarne
   con la spada nel fodero?
   PERGOLA
   Che puote                                      165
   bramar di più? Dirovvel io: che noi
   tutto arrischiam l’esercito in un campo
   ov’egli ha preso ogni vantaggio. Or questo
   poniamo in salvo; ché le terre è lieve
   riprender con gli eserciti.
   FORTEBRACCIO
   Con quali?                                      170
   Non, per mia fé, con quelli a cui s’insegna
   a diloggiar quando il nemico appare,
   a non mirarlo in faccia, a lasciar soli
   nelle angosce i compagni; ma con genti
   quali or le abbiam d’ira e di scorno accese,                     175
   impazienti di pugnar, con queste
   si riparan le perdite, e si vince.
   Che dobbiamo aspettar? Brandi arrotati,
   perché lasciarli irrugginir?
   SFORZA
   Torello,
   voi temete d’agguati? Anch’io dirovvi:                            180
   non son più quelle guerre, in cui minuti
   drappelletti movean, con l’occhio teso
   ogni macchia guatando, ogni rivolta.
   Un’oste intera sopra un’oste intera
   oggi rovescerassi: un tanto stuolo                                    185
   si vince sì, ma non s’accerchia; ei spazza
   innanzi a sé gl’intoppi, e fin ch’è unito,
   dovunque sia, sul suo terreno è sempre.
   FORTEBRACCIO
   (a Pergola e Torello)
   Siete convinti?
   TORELLO
   Sofferite...
   MALATESTI
   Io il sono.
   Omai vano è più dir. Certo io mi tengo                           190
   che tutti andrete in operar d’accordo
   più che non foste in divisar disgiunti.
   Poi che un partito e l’altro ha il suo periglio,
   scegliamo almen quel che più gloria ha seco.
   Noi darem la battaglia: alla frontiera                                195
   io mi pongo coi miei; Sforza vien dietro
   e chiude la vanguardia; il mezzo tenga
   della battaglia Fortebraccio: e il nostro
   ufizio sia con impeto serrarci
   addosso al campo del nemico, aprirlo,                            200
   e spingerci a Maclodio. Voi, Torello,
   e voi, Pergola, a cui sì dubbia sembra
   questa giornata, io pongo in vostra mano
   l’assicurarla: voi, discosti alquanto,
   il retroguardo avrete. O la fortuna,                                  205
   pur come suol, seconda i valorosi,
   e rompiamo il nemico; e voi piombate
   sopra i dispersi. Ma s’ei dura incontro
   l’impeto nostro, e ci vedete entrati
   donde uscir soli non possiam; venite                               210
   a noi, reggete i periglianti amici;
   ché, per cosa che avvenga, io vi prometto,
   retrocedere a voi non ci vedrete.
   FORTEBRACCIO
   Non ci vedrete, no.
   SFORZA
   Siatene certi.
   FORTEBRACCIO
   Sia lode al ciel, combatteremo alfine:                              215
   mai non accadde a capitan, ch’io sappia,
   per fare il suo mestier contender tanto.
   PERGOLA
   O Carmagnola, tu pensasti che oggi
   il giovenil corruccio alla prudenza
   prevarrebbe dei vecchi; e ti apponesti.                            220
   FORTEBRACCIO
   Sì, la prudenza è la virtù dei vecchi:
   ella cresce con gli anni, e tanto cresce
   che alfin diventa...
   PERGOLA
   Ebben, dite.
   FORTEBRACCIO
   Paura;
   poi che volete ad ogni modo udirlo.
   MALATESTI
   Fortebraccio!
   PERGOLA
   L’hai detto. Ad un soldato                      225
   che già più volte avea pugnato e vinto
   prima che tu vedessi una bandiera,
   oggi tu il primo hai detto...
   MALATESTI
   Da quel lato,
   presso Maclodio è posto il Carmagnola.
   Quegli fra noi che avere oggi pensasse                            230
   altro nemico che costui, sarebbe
   un traditor: pensatamente il dico.
   PERGOLA
   Ritratto il voto che dapprima io diedi;
   e il do per la battaglia: ella fia quale
   predissi allor; ma non importa. Allora                              235
   potea schifarsi; or la domando io primo:
   io son per la battaglia.
   MALATESTI
   Accetto il voto
   ma non l’augurio: lo distorni il cielo
   sul capo del nemico.
   PERGOLA
   O Fortebraccio,
   tu m’hai offeso.
   MALATESTI
   Or via...
   FORTEBRACCIO
   Se così credi,                    240
   sia pur così: perché a te spiaccia, o a quale
   altro pur sia, non crederai ch’io voglia
   una parola ritirar che uscita
   dalle labbra mi sia.
   MALATESTI
   (in atto di partire)
   Chi resta fido
   a Filippo, mi segua.
   PERGOLA
   Io vi prometto                               245
   che oggi darem battaglia, e che di noi
   non mancheravvi alcuno. O Fortebraccio,
   non giunger onta ad onta; io ti ripeto,
   tu m’hai offeso. Ascolta, io t’offro il modo
   che tu mi renda l’onor mio, serbando                              250
   intatto il tuo.
   FORTEBRACCIO
   Che vuoi?
   PERGOLA
   Dammi il tuo posto.
   Ovunque tu combatta, a tutti è noto
   che tu volesti la battaglia, ed io,
   io devo ad ogni modo essere in luogo
   che l’amico e il nemico aperto veda                                255
   ch’io non ho... tu m’intendi.
   FORTEBRACCIO
   Io son contento.
   Prendi quel posto; poi che il brami, è tuo.
   O forte, or m’odi: ora m’è dolce il dirti
   ch’io non t’offesi, no: per la fortuna
   del signor nostro tu soverchio temi:                                 260
   questo dir volli. Ma il timor che nasce
   in cor di quel che ama la vita, e l’ama
   più dell’onor, ma che nel cor del prode
   muore al primo periglio ch’egli affronta,
   e mai più non risorge, o valoroso,                                   265
   pensavi tu?...
   PERGOLA
   Nulla pensai: tu parli
   da generoso qual tu sei.
   (a Malatesti)
   Signore,
   voi consentite al cambio?...
   MALATESTI
   Io ci consento;
   e son ben lieto di veder tant’ira
   tutta cader sovra il nemico.
   TORELLO
   (allo Sforza)
   Io stava                            270
   col Pergola da prima; ingiusto, io spero,
   non vi parrà...
   SFORZA
   V’intendo; e con lui state
   alla vanguardia: ultimi e primi, tutti
   combatterem; poco m’importa il dove.
   MALATESTI
   Non più ritardi. Iddio sarà coi prodi.                               275
   (partono)
 
   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   SCENA IV
   Campo veneziano. Tenda del Conte.
   IL CONTE, un SOLDATO
   SOLDATO
   Signor, l’oste nemica è in movimento:
   la vanguardia è sull’argine, e s’avanza.
   IL CONTE
   I condottieri dove son?
   SOLDATO
   Qui tutti
   fuor della tenda i principali; e stanno
   gli ordin vostri aspettando.
   IL CONTE
   Entrino tosto.                    280
   (parte il Soldato)
 
   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   SCENA V
   IL CONTE
   Eccolo il dì ch’io bramai tanto. — Il giorno
   ch’ei non mi volle udir, che invan pregai,
   che ogni adito era chiuso, e che deriso,
   solo, io partiva, e non sapea per dove,
   oggi con gioia io lo rammento alfine.                               285
   Ti pentirai, dicea, mi rivedrai,
   ma condottier de’ tuoi nemici, ingrato!
   Io lo dicea; ma allor pareva un sogno,
   un sogno della rabbia; ed ora è vero.
   Gli sono a fronte: ecco mi balza il core:                           290
   io sento il dì della battaglia... E s’io...
   No: la vittoria è mia.
 
   IL CONTE DI CARMAGNOLA
   SCENA VI
   IL CONTE, GONZAGA, ORSINI, TOLENTINO,
   altri CONDOTTIERI
   IL CONTE
   Compagni, udiste
   la lieta nova: l’inimico ha fatto
   ciò ch’io volea; così voi pur farete.
   E il sol che sorge, a ognun di noi, lo giuro,                       295
   il più bel dì di nostra vita apporta.
   Non è tra voi chi una battaglia aspetti
   per farsi un nome, il so; ma questa sera
   l’avrem più glorioso; e la parola
   che al nostro orecchio sonerà più grata,                          300
   omai fia quella di Maclodio. Orsini,
   son pronti i tuoi?
   ORSINI
   Sì.
   IL CONTE
   Corri all’imboscate
   sulla destra dell’argine; raggiungi
   quei che vi stanno, e prendine il comando.
   E tu a sinistra, o Tolentino. E quindi                                305
   non vi movete, che non sia lo scontro
   incominciato; quando ei fia, correte
   alle spalle al nemico. Udite entrambi.
   Se dell’insidie egli s’avvede, e tenta
   ritrarsi, appena avrà voltato il dorso,                               310
   siategli addosso uniti: io son con voi.
   Provochi, o fugga, oggi dev’esser vinto.
   ORSINI
   E lo sarà.
   (parte)
   TOLENTINO
   T’ubbidirem, vedrai.
   (parte)
   IL CONTE
   (agli altri)
   Tu, Gonzaga, al mio fianco. I posti a voi
   assegnerò sul campo. Andiam, compagni;                       315
   si resista al prim’urto: il resto è certo.
 
   CORO
   S’ode a destra uno squillo di tromba;
   a sinistra risponde uno squillo:
   d’ambo i lati calpesto rimbomba
   da cavalli e da fanti il terren.
   Quinci spunta per l’aria un vessillo;                                 5
   quindi un altro s’avanza spiegato:
   ecco appare un drappello schierato;
   ecco un altro che incontro gli vien.
   Già di mezzo sparito è il terreno;
   già le spade rispingon le spade;                                       10
   l’un dell’altro le immerge nel seno;
   gronda il sangue; raddoppia il ferir.
   — Chi son essi? Alle belle contrade
   qual ne venne straniero a far guerra?
   Qual è quei che ha giurato la terra                                   15
   dove nacque far salva, o morir?
   — D’una terra son tutti: un linguaggio
   parlan tutti: fratelli li dice
   lo straniero: il comune lignaggio
   a ognun d’essi dal volto traspar.                                     20
   Questa terra fu a tutti nudrice,
   questa terra di sangue ora intrisa,
   che natura dall’altre ha divisa,
   e ricinta con l’alpe e col mar.
   — Ahi! Qual d’essi il sacrilego brando               25
   trasse il primo il fratello a ferire?
   Oh terror! Del conflitto esecrando
   la cagione esecranda qual è?
   — Non la sanno: a dar morte, a morire
   qui senz’ira ognun d’essi è venuto;                                  30
   e venduto ad un duce venduto,
   con lui pugna, e non chiede il perché.
   — Ahi sventura! Ma spose non hanno,
   non han madri gli stolti guerrieri?
   Perché tutte i lor cari non vanno                                      35
   dall’ignobile campo a strappar?
   E i vegliardi che ai casti pensieri
   della tomba già schiudon la mente,
   ché non tentan la turba furente
   con prudenti parole placar?                                            40
   — Come assiso talvolta il villano
   sulla porta del cheto abituro,
   segna il nembo che scende lontano
   sopra i campi che arati ei non ha;
   così udresti ciascun che sicuro                                        45
   vede lungi le armate coorti,
   raccontar le migliaia de’ morti,
   e la pieta dell’arse città.
   Là, pendenti dal labbro materno
   vedi i figli che imparano intenti                                        50
   a distinguer con nomi di scherno
   quei che andranno ad uccidere un dì;
   qui le donne alle veglie lucenti
   de’ monili far pompa e de’ cinti,
   che alle donne diserte de’ vinti                                        55
   il marito o l’amante rapì.
   — Ahi sventura! sventura! sventura!
   Già la terra è coperta d’uccisi;
   tutta è sangue la vasta pianura;
   cresce il grido, raddoppia il furor.                                   60
   Ma negli ordini manchi e divisi
   mal si regge, già cede una schiera;
   già nel volgo che vincer dispera,
   della vita rinasce l’amor.
   Come il grano lanciato dal pieno                         65
   ventilabro nell’aria si spande;
   tale intorno per l’ampio terreno
   si sparpagliano i vinti guerrier.
   Ma improvvise terribili bande
   ai fuggenti s’affaccian sul calle;                                        70
   ma si senton più presso alle spalle
   anelare il temuto destrier.
   Cadon trepidi a pié de’ nemici,
   gettan l’arme, si danno prigioni:
   il clamor delle turbe vittrici                                              75
   copre i lai del tapino che mor.
   Un corriero è salito in arcioni;
   prende un foglio, il ripone, s’avvia,
   sferza, sprona, divora la via;
   ogni villa si desta al rumor.                                              80
   Perché tutti sul pesto cammino
   dalle case, dai campi accorrete?
   Ognun chiede con ansia al vicino,
   che gioconda novella recò?
   Donde ei venga, infelici, il sapete,                                   85
   e sperate che gioia favelli?
   I fratelli hanno ucciso i fratelli:
   questa orrenda novella vi do.
   Odo intorno festevoli gridi;
   s orna il tempio, e risona del canto;                                 90
   già s’innalzan dai cori omicidi
   grazie ed inni che abbomina il ciel.
   Giù dal cerchio dell’alpi frattanto
   lo straniero gli sguardi rivolve;
   vede i forti che mordon la polve,                                     95
   e li conta con gioia crudel.
   Affrettatevi, empite le schiere,
   sospendete i trionfi ed i giochi,
   ritornate alle vostre bandiere:
   lo straniero discende; egli è qui.                                      100
   Vincitor! Siete deboli e pochi?
   Ma per questo a sfidarvi ei discende;
   e voglioso a quei campi v’attende
   dove il vostro fratello perì.
   Tu che angusta a’ tuoi figli parevi,                       105
   tu che in pace nutrirli non sai,
   fatal terra, gli estrani ricevi:
   tal giudizio comincia per te.
   Un nemico che offeso non hai,
   a tue mense insultando s’asside;                                      110
   degli stolti le spoglie divide;
   toglie il brando di mano a’ tuoi re.
   Stolto anch’esso! Beata fu mai
   gente alcuna per sangue ed oltraggio?
   Solo al vinto non toccano i guai;                                     115
   torna in pianto dell’empio il gioir.
   Ben talor nel superbo viaggio
   non l’abbatte l’eterna vendetta;
   ma lo segna; ma veglia ed aspetta;
   ma lo coglie all’estremo sospir.                                       120
   Tutti fatti a sembianza d’un Solo,
   figli tutti d’un solo Riscatto,
   in qual ora, in qual parte del suolo,
   trascorriamo quest’aura vital,
   siam fratelli; siam stretti ad un patto:                                125
   maledetto colui che l’infrange,
   che s’innalza sul fiacco che piange,
   che contrista uno spirto immortal!
 
   FINE DELL’ATTO SECONDO
 
   ATTO TERZO
   SCENA I
   Tenda del Conte.
   IL CONTE e IL PRIMO COMMISSARIO
   IL CONTE
   Siete contenti?
   PRIMO COMMISSARIO
   Udir l’alto trionfo
   della patria; vederlo; essere i primi
   a salutarla vincitrice; a lei
   darne l’annunzio; assistere alla fuga
   de’ suoi nemici; e mentre al nostro orecchio                    5
   rimbomba il suon della minaccia ancora,
   veder la gloria sua fuor del periglio
   uscir raggiante e più che mai serena,
   come un sol dalle nubi; è gioia questa
   forse, o signor, cui la parola arrivi?                                 10
   Voi la vedete: essa vi sia misura
   della riconoscenza; e ben ci tarda
   di rendervi tai grazie in altro nome
   che non è il nostro, e del Senato a voi
   riferir la letizia e il guiderdone.                                         15
   Ei sarà pari al merto.
   IL CONTE
   Io già lo tengo.
   Venezia è salva; ho liberata in parte
   una grande promessa; ho fatto alfine
   risovvenir di me tal che m’avea
   dimenticato; ho vinto.
   PRIMO COMMISSARIO
   Ed or si vuole                           20
   assicurar della vittoria il frutto.
   IL CONTE
   .... Questa è mia cura.
   PRIMO COMMISSARIO
   Or che dal vostro brando
   sgombra è la via, noi ci aspettiam che tutta
   voi la farete, né starem fin tanto
   che non si giunga del nemico al trono.                             25
   IL CONTE
   Quando fia tempo.
   PRIMO COMMISSARIO
   E che? Voi non volete
   inseguire i fuggenti?
   IL CONTE
   Ora non voglio.
   PRIMO COMMISSARIO
   Ma il Senato lo crede... E noi ben certi
   che pari all’alta occasion, che pari
   alla vittoria il vostro ardor saria                                       30
   nel proseguirla, abbiamo a lui...
   IL CONTE
   Vi siete
   troppo affrettati.
   PRIMO COMMISSARIO
   E che dirà mai quando
   udrà che ancor siam qui?
   IL CONTE
   Dirà, che il meglio
   è di fidarsi a chi per lui già vinse.
   PRIMO COMMISSARIO
   Ma... che pensate far?
   IL CONTE
   Ve l’avrei detto                        35
   più volentier pochi momenti or sono;
   pur convien ch’io vel dica. Io non mi voglio
   allontanar di qui pria ch’espugnate
   non sian le rocche che ci stan d’intorno.
   Voglio un solo nemico, e quello in faccia.                        40
   PRIMO COMMISSARIO
   Or dunque i nostri voti...
   IL CONTE
   I vostri voti
   più arditi son del brando mio, più rapidi
   de’ miei cavalli;... ed io... la prima volta
   è che mi sento dir pur ch’io m’affretti.
   PRIMO COMMISSARIO
   Ma pensaste abbastanza?
   IL CONTE
   E che! Sì nova                               45
   mi giunge una vittoria? E vi par egli
   che questa gioia mi confonda il core
   tanto che il primo mio pensier non sia
   per ciò che resta a far?
   SCENA II
   IL SECONDO COMMISSARIO, e detti.
   SECONDO COMMISSARIO
   (al Conte)
   Signor, se tosto
   non correte al riparo, una sfacciata                                 50
   perfidia s’affatica a render vana
   sì gran vittoria; e già l’ha fatto in parte.
   IL CONTE
   Come?
   SECONDO COMMISSARIO
   I prigioni escon del campo a torme;
   i condottieri ed i soldati a gara
   li mandan sciolti, né tener li puote                                    55
   fuor che un vostro comando.
   IL CONTE
   Un mio comando?
   SECONDO COMMISSARIO
   Esitereste a darlo?
   IL CONTE
   È questo un uso
   della guerra, il sapete. È così dolce
   il perdonar quando si vince! e l’ira
   presto si cambia in amistà ne’ cori                                  60
   che batton sotto il ferro. Ah! non vogliate
   invidiar sì nobil premio a quelli
   che hanno per voi posta la vita, ed oggi
   son generosi, perché ier fur prodi.
   SECONDO COMMISSARIO
   Sia generoso chi per sé combatte,                                  65
   signor; ma questi, e ad onor l’hanno, io credo,
   al nostro soldo han combattuto; e nostri
   sono i prigioni.
   IL CONTE
   E voi potete adunque
   creder così: quei che gli han visti a fronte,
   che assaggiaro i lor colpi, e che a fatica                           70
   su lor le mani insanguinate han poste,
   nol crederan sì di leggieri.
   PRIMO COMMISSARIO
   È questa
   dunque una giostra di piacer? Non vince
   per conservar, Venezia? E vana al tutto
   fia la vittoria?
   IL CONTE
   Io già l’udii, di novo                                75
   la devo udir questa parola: amara,
   importuna mi vien come l’insetto
   che, scacciato una volta, anco a ronzarmi
   torna sul volto... La vittoria è vana?
   Il suol d’estinti ricoperto, sparso                                     80
   e scoraggiato il resto... il più fiorente
   esercito! col qual, se unito ancora
   e mio foss’egli, e mio davver, torrei
   a correr tutta Italia; ogni disegno
   dell’inimico al vento; anche il pensiero                             85
   dell’offesa a lui tolto; a stento usciti
   dalle mie mani, e di fuggir contenti
   quattro tai duci, contro a’ quai pur ieri
   era vanto il resistere; svanito
   mezzo il terror di que’ gran nomi; ai nostri                       90
   raddoppiato l’ardir che agli altri è scemo;
   tutta la scelta della guerra in noi;
   nostre le terre ch’egli han sgombre... è nulla?
   Pensate voi che torneranno al Duca
   que’ prigioni? che l’amino? che a loro                             95
   caglia di lui più che di voi? ch’egli abbiano
   combattuto per esso? Han combattuto
   perché all’uomo che segue una bandiera,
   grida una voce imperiosa in core:
   combatti, e vinci. E’ son perdenti; e’ sono                       100
   tornati in libertà; si venderanno...
   oh! tale ora è il soldato... a chi primiero
   li comprerà... Comprateli, e son vostri.
   PRIMO COMMISSARIO
   Quando assoldammo chi dovea con essi
   pugnar, comprarli noi credemmo allora.                          105
   SECONDO COMMISSARIO
   Signor, Venezia in voi si fida; in voi
   vede essa un figlio; e quanto all’util suo,
   alla sua gloria può condur, s’aspetta
   che si faccia da voi.
   IL CONTE
   Tutto ch’io posso.
   SECONDO COMMISSARIO
   Ebben, che non potete in questo campo?                        110
   IL CONTE
   Quel che chiedete: un uso antico, un uso
   caro ai soldati violar non posso.
   SECONDO COMMISSARIO
   Voi cui nulla resiste, a cui sì pronto
   tien dietro ogni voler, sì ch’uom non vede
   se per amore o per timor si pieghi,                                  115
   voi non potreste in questo campo, voi
   fare una legge, e mantenerla?
   IL CONTE
   Io dissi
   ch’io non potea: meglio or dirò: nol voglio.
   Non più parole; con gli amici è questo
   il mio costume antico, ai giusti preghi                               120
   soddisfar tosto e lietamente, e gli altri
   apertamente rifiutar. Soldati!
   SECONDO COMMISSARIO
   Ma... che disegno è il vostro?
   IL CONTE
   Or lo vedrete.
   (a un Soldato che entra)
   Quanti prigion restano ancora?
   IL SOLDATO
   Io credo
   quattrocento, signor.
   IL CONTE
   Chiamali... chiama                      125
   i più distinti... quei che incontri i primi:
   vengan qui tosto.
   (parte il Soldato)
   Io ’l potrei certo... Ov’io
   dessi un tal cenno, non s’udria nel campo
   una repulsa; ma i miei figli, i miei
   compagni del periglio e della gioia,                                  130
   quei che fidano in me, che un capitano
   credon seguir sempre a difender pronto
   l’onor della milizia ed il vantaggio,
   io tradirli così! Farla più serva,
   più vil, più trista che non è!... Signori,                              135
   fidente io son, come i soldati il sono;
   ma se cosa or da me chiedete a forza,
   che mi tolga l’amor de’ miei compagni,
   se mi volete separar da quelli,
   e a tal ridurmi ch’io non abbia appoggio                          140
   altro che il vostro, mio malgrado il dico,
   m’astringerete a dubitar...
   SECONDO COMMISSARIO
   Che dite!
   SCENA III
   I PRIGIONIERI, tra i quali PERGOLA figlio, e detti.
   IL CONTE
   (ai Prigionieri)
   O prodi indarno, o sventurati!... A voi
   dunque fortuna è più crudel? voi soli
   siete alla trista prigionia serbati?                                      145
   UN PRIGIONIERE
   Tale, eccelso signor, non era il nostro
   presentimento allor che a voi dinanzi
   fummo chiamati, udir ci parve il messo
   di nostra libertà. Già tutti l’hanno
   ricovrata color che agli altri duci,                                    150
   minor di voi, caddero in mano; e noi...
   IL CONTE
   Voi, di chi siete prigionier?
   IL PRIGIONIERE
   Noi fummo
   gli ultimi a render l’armi. In fuga o preso
   già tutto il resto, ancor per pochi istanti
   fu sospesa per noi l’empia fortuna                                   155
   della giornata; alfin voi feste il cenno
   d’accerchiarci, o signor: soli, non vinti,
   ma reliquie de’ vinti, al drappel vostro...
   IL CONTE
   Voi siete quelli? Io son contento, amici,
   di rivedervi; e posso ben far fede                                    160
   che pugnaste da prodi: e se tradito
   tanto valor non era, e pari a voi
   sortito aveste un condottier, non era
   piacevol tresca esservi a fronte.
   IL PRIGIONIERE
   Ed ora
   ci fia sventura il non aver ceduto                                     165
   che a voi, signore? E quelli a cui toccato
   men glorioso è il vincitor, l’avranno
   trovato più cortese? Indarno ai vostri
   la libertà chiedemmo; alcun non osa
   dispor di noi senza l’assenso vostro;                               170
   ma cel promiser tutti. Oh! se potete
   mostrarvi al Conte, ci dicean: non egli
   certo dei vinti aggraverà la sorte;
   non fia certo per lui tolta un’antica
   cortesia della guerra,... ei che sapria                               175
   esser piuttosto ad inventarla il primo.
   IL CONTE
   (ai Commissari)
   Voi gli udite, o signori... Ebben, che dite?...
   Voi, che fareste?...
   (ai Prigionieri)
   Tolga il ciel che alcuno
   più altamente di me pensi ch’io stesso.
   Voi siete sciolti, amici. Addio: seguite                             180
   la vostra sorte, e s’ella ancor vi porta
   sotto una insegna che mi sia nemica...
   ebben, ci rivedremo.
   (segni di gioia tra i Prigionieri, che partono;
   il Conte osserva il Pergola figlio, e lo ferma)
   O giovinetto,
   tu del volgo non sei; l’abito, e il volto
   ancor più chiaro il dice; e ti confondi                               185
   con gli altri, e taci?
   PERGOLA FIGLIO
   O capitano, i vinti
   non han nulla da dir.
   IL CONTE
   La tua fortuna
   porti così, che ben ti mostri degno
   d’una miglior. Quale è il tuo nome?
   PERGOLA FIGLIO
   Un nome
   cui crescer pregio assai difficil fia,                                   190
   che un grande obbligo impone a chi lo porta:
   Pergola è il nome mio.
   IL CONTE
   Che? Tu sei figlio
   di quel valente?
   PERGOLA FIGLIO
   Il son.
   IL CONTE
   Vieni ed abbraccia
   l’antico amico di tuo padre. Io era
   quale or tu sei, quando il conobbi in prima.                     195
   Tu mi rammenti i lieti giorni, i giorni
   delle speranze. E tu fa cor: fortuna
   più giocondi princìpi a me concesse;
   ma le promesse sue sono pei prodi;
   e o presto o tardi essa le adempie. Il padre                     200
   per me saluta, o giovinetto, e digli
   ch’io non tel chiesi, ma che certo io sono
   ch’ei non volea questa battaglia.
   PERGOLA FIGLIO
   Ah! certo,
   non la volea; ma fur parole al vento.
   IL CONTE
   Non ti doler: del capitano è l’onta                                   205
   della sconfitta; e sempre ben comincia
   chi da forte combatte ove fu posto.
   Vien meco;
   (lo prende per mano)
   ai duci io vo’ mostrarti, io voglio
   renderti la tua spada.
   (ai Commissari)
   Addio, signori;
   giammai pietoso coi nemici vostri                                    210
   io non sarò, che dopo averli vinti.
   (partono il Conte e Pergola figlio)
   SCENA IV
   I due COMMISSARI
   SECONDO COMMISSARIO
   (dopo qualche silenzio)
   Direte ancor che a presagir perigli
   troppo facil son io? che le parole
   de’ suoi contrari, il mio sospetto antico,
   l’odio forse, chi sa? mi fanno ingiusto                              215
   contro costui? ch’egli è sdegnoso, ardente,
   ma leal? che da lui cercar non dessi
   ossequi, ma servigi, e quando in grave
   caso il nostro volere a lui s’intimi,
   il dubitar ch’egli resista è un sogno?                                220
   Vi basta questo?
   PRIMO COMMISSARIO
   C’è di più. Gli dissi
   che a noi premea che s’inseguisse il vinto:
   ei ricusò.
   SECONDO COMMISSARIO
   Ma che rispose?
   PRIMO COMMISSARIO
   Ei vuole
   assicurarsi delle rocche... ei teme...
   SECONDO COMMISSARIO
   Cauto ad un tratto è divenuto... e dopo                           225
   una vittoria.
   PRIMO COMMISSARIO
   La parola a stento
   gli uscia di bocca: ella parea risposta
   all’indiscreto che t’assedia, e vuole
   il tuo segreto che per nulla il tocca.
   SECONDO COMMISSARIO
   Ma l’ha poi detto il suo segreto? E questo                      230
   motivo ond’egli accontentar vi volle,
   vi parve il solo suo motivo, il vero?
   PRIMO COMMISSARIO
   Nol so, non ci badai, tempo non ebbi
   che di pensar ch’io mi trovava innanzi
   un temerario, e ch’io sentia parole                                  235
   inusitate ai pari nostri.
   SECONDO COMMISSARIO
   E s’egli
   al suo signore antico, al primo ond’ebbe
   onor supremi, all’alta creatura
   della sua spada, più terror che danno
   volesse far? fargli pensar soltanto                                    240
   quel ch’egli era per lui, quel che gli è contro?
   Tal nemico mostrarglisi, ch’ei brami
   d’averlo amico ancor? S’ei non potesse
   tutto staccare il suo pensier da un trono
   ch’egli alzò dalla polve; ov’ebbe il primo                         245
   grado dopo colui che v’è seduto?
   Se un duca ardente di conquiste, e inetto
   a sopportar d’una corazza il peso,
   che d’una mano ha d’uopo e d’un consiglio,
   e al condottier lo chiede, e gli comanda                           250
   ciò ch’ei medesmo gl’inspirò, più grato
   signor, più dolce al condottier paresse,
   che molti, e vigilanti, e più bramosi
   di conservar che d’acquistar, cui preme
   sovr’ogni cosa il comandar davvero?                              255
   PRIMO COMMISSARIO
   Tutto io m’aspetto da costui.
   SECONDO COMMISSARIO
   Teniamo
   questo sospetto: il suo contegno, i nostri
   accorgimenti il faran chiaro in breve,
   o ad altro almen ci guideranno. Ei trama
   certo. Colui che trama, e del successo                            260
   si pasce già, come se il tenga, ardito
   parla ancor che nol voglia; e quei che sprezza
   in faccia il suo signor, già in cor ne ha scelto
   un altro, o pensa a diventarlo ei stesso.
   No: da Filippo ei non è sciolto in tutto.                            265
   A quella stirpe onde la sposa egli ebbe
   non è stranier: troppo gli è caro il nodo
   che ad essa un dì lo strinse. In quella figlia,
   che ha tanta parte in suo pensier, non scorre
   col suo confuso de’ Visconti il sangue?                           270
   PRIMO COMMISSARIO
   Come parlò! Come passò dall’ira
   al non curar! Con che superba pace
   disubbidì! Siam noi nel nostro campo?
   Di Venezia i mandati? Eran costoro
   vinti e prigioni? E più sicuro il guardo                              275
   portavano di noi! Noi testimoni
   del suo poter, del conto in cui ci tiene,
   de’ nostri acquisti così sparsi al vento,
   di tal gioia, di tai grazie, di tali
   abbracciamenti! Oh! ciò durar non puote.                       280
   Che avviso è il vostro?
   SECONDO COMMISSARIO
   Haccene due? Soffrire,
   dissimular, fargli querela ancora
   d’un’offesa che mai creder non puote
   dimenticata, e insiem la strada aprirgli
   di ripararla a modo suo; gradire                                      285
   che ch’ei ne faccia; chiedergli soltanto
   ciò che siam certi d’ottenerne; opporci
   sol quanto basti a far che vera appaia
   condiscendenza il resto; a dichiararsi
   non astringerlo mai; vegliare intanto;                                290
   scriverne ai Dieci, ed aspettar comandi.
   PRIMO COMMISSARIO
   Viver così! Che si diria di noi?
   Dell’alto ufizio che ci fu commesso,
   a cui venimmo invidiati, e or tale
   diviene?
   SECONDO COMMISSARIO
   È sempre glorioso il posto                             295
   dove si serve la sua patria, e dove
   si giunge ai fini suoi. Soldati e duci
   tutti sono per lui, l’ammiran tutti,
   nessun l’invidia; a sommo onor si tiene
   bene ubbidirlo; e in questo sol c’è gara                           300
   che ad essergli secondo ognuno aspira.
   Voce sì cara e riverita in prima,
   che forza avrebbe in lor poscia che udita
   l’hanno in un tanto dì, che forza avrebbe
   se proferisse mai quella parola,                                       305
   che in core han tutti, la rivolta? Guai!
   Che più? gli udimmo pur; come de’ suoi,
   è nel pensiero de’ nemici in cima.
   PRIMO COMMISSARIO
   Ma siamo a tempo? Ei già sospetta.
   SECONDO COMMISSARIO
   Il siamo.
   Essi armati, e sol essi; avvezzi tutti                                  310
   a prodigar la vita, a non temere
   il periglio, ad amarlo, e delle imprese
   a non guardar che la speranza, alfine
   più ch’uomini nel campo: ah! se fanciulli
   non fosser poi nel resto, ed i sospetti                              315
   facili a palesar come a deporli;
   se una parola di lusinga, un atto
   di sommessa amistà non li volgesse
   a talento di quel che l’usa a tempo;
   a che saremmo? ubbidiria la spada?                                320
   Saremmo ancora i signor noi?
   PRIMO COMMISSARIO
   Sta bene.
   Riesca, o no, questo partito è il solo.
 
   FINE DELL’ATTO TERZO
 
   ATTO QUARTO
   SCENA I
   Sala dei Capi del Consiglio dei Dieci, in Venezia.
   MARCO Senatore, e MARINO uno dei Capi.
   MARCO
   Eccomi al cenno degli eccelsi Capi
   del Consiglio de’ Dieci.
   MARINO
   Io parlo in nome
   di tutti lor. Vi si destina un grave
   incarco, fuor di qui: se un argomento
   di confidenza questo sia... la vostra                                 5
   coscienza il diravvi.
   MARCO
   Essa mi dice
   che scarsa al merto ed all’ingegno mio
   dee la patria concederla, ma intera
   alla fede ed al cor.
   MARINO
   La patria! È un nome
   dolce a chi l’ama oltre ogni cosa, e sente                        10
   di vivere per lei; ma proferirlo
   senza tremar non dee chi resta amico
   de’ suoi nemici.
   MARCO
   Ed io...
   MARINO
   Per chi parlaste
   oggi in Senato? Per la patria? I vostri
   sdegni, i vostri terrori eran per lei?                                  15
   Chi vi rendea sì caldo? Il suo periglio,
   o il periglio di chi? Chi difendeste...
   voi solo?
   MARCO
   Io so davanti a chi mi trovo.
   Sta la mia vita in vostra man, ma il mio
   voto non già: giudice ei non conosce                               20
   fuor che il mio cor; né d’altro esser può reo
   che d’avergli mentito. A darne conto
   pur disposto son io.
   MARINO
   Tutto che puote
   por la patria in periglio, essere inciampo
   all’alte mire sue, dargli sospetto,                                     25
   è in nostra man. Perché ci siate or voi,
   se nol sapete, se mostrar vi giova
   di non saperlo, uditelo. Per ora
   d’oggi si parli; non vogliam di tutta
   la vostra vita interrogar che un giorno.                             30
   MARCO
   E che? fors’altro mi si appon? Di nulla
   temer poss’io; la mia condotta...
   MARINO
   È nota
   più a noi che a voi. Dalla memoria vostra
   forse assai cose ha cancellato il tempo:
   il nostro libro non obblia.
   MARCO
   Di tutto                                           35
   ragion darò.
   MARINO
   Voi la darete quando
   vi fia chiesta. Non più: quando il Senato
   diede il comando al Carmagnola, a molti
   era sospetta la sua fede; ad altri
   certa parea: potea parerlo allora.                                    40
   Ei discioglie i prigioni, insulta i nostri
   mandati, i nostri pari; ha vinto, e perde
   in perfid’ozio la vittoria. Il velo
   cade dal ciglio ai più. Nel suo soccorso
   troppo fidando, il Trevisan s’innoltra                               45
   nel Po, le navi del nemico affronta;
   sopraffatto dal numero, richiede
   al Capitan rinforzo, e non l’ottiene.
   Freme il Senato; poche voci appena
   s’alzano ancor per lui. Cremona è presa,                        50
   basta sol ch’ei v’accorra; ei non v’accorre.
   Giunge l’annunzio oggi al Senato: alfine
   più non gli resta difensor che un solo:
   solo, ma caldo difensor. Per lui
   innocente è costui, degno di lode                                    55
   più che di scusa; e se ci fu sventura,
   colpa è soltanto del destino... e nostra.
   Non è giustizia che il persegue: è solo
   odio privato, è invidia, è basso orgoglio
   che non perdona al sommo, a chi tacendo                       60
   grida co’ fatti: io son maggior di voi.
   Certo inaudito è un tal linguaggio: i Padri
   nel lor Senato oggi l’udiro; e muti
   si volsero a guardar donde tal voce
   venìa, se uno straniero oggi, un nemico                           65
   premere un seggio nel Senato ardia.
   Chiarito è il Conte un traditor; si vuole
   torgli ogni via di nocere. Ma l’arte
   tanta e l’audacia è di costui, che reso
   ei s’è tremendo a’ suoi signori; è forte                             70
   di quella forza che gli abbiam fidata;
   egli ha il cor de’ soldati; e l’armi nostre,
   quando voglia, son sue; contro di noi
   volger le puote, e il vuol. Certo è follia
   aspettar che lo tenti; ognun risolve                                  75
   ch’ei si prevenga, e tosto. A forza aperta
   è impresa piena di perigli. E noi
   starem per questo? E il suo maggior delitto
   sarà cagion perché impunito ei vada?
   Sola una strada alla giustizia è schiusa,                            80
   l’arte con cui l’ingannator s’inganna.
   Ei ci astrinse a tenerla; ebben, si tenga:
   questo è il voto comun. Che fece allora
   l’amico di costui? Ve ne rammenta?
   Io vel dirò; ché men tranquillo al certo                            85
   era in quel punto il vostro cor, dell’occhio
   che imperturbato vi seguia. Perdeste
   ogni ritegno, oltrepassaste il largo
   confin che un resto di prudenza avea
   prescritto al vostro ardor, dimenticaste                           90
   ciò che promesso v’eravate, intero
   ai men veggenti vi svelaste, a quelli
   cui parea novo ciò che a noi non l’era.
   Ognuno allor pensò che oggi in Senato
   c’era un uom di soverchio, e che bisogna                        95
   porre il segreto dello Stato in salvo.
   MARCO
   Signor, tutto a voi lice: innanzi a voi
   quel che ora io sia, non so; però non posso
   dimenticarmi che patrizio io sono,
   né a voi tacer che un dubbio tal m’offende.                     100
   Sono un di voi: la causa dello Stato
   è la mia causa; e il suo segreto importa
   a me non men che altrui.
   MARINO
   Volete alfine
   saper chi siete qui? Voi siete un uomo
   di cui si teme, un che lo Stato guarda                              105
   come un inciampo alla sua via. Mostrate
   che nol sarete; il darvene agio ancora
   è gran clemenza.
   MARCO
   Io sono amico al Conte:
   questa è l’accusa mia; nol nego, io il sono:
   e il ciel ringrazio che vigor mi ha dato                              110
   di confessarlo qui. Ma se nemico
   è della patria? Mi si provi, è il mio.
   Che gli si appone? I prigionier disciolti?
   Non li disciolse il vincitor soldato?
   Ma invan pregato il condottier non volle                          115
   frenar questa licenza. Il potea forse?
   Ma l’imitò. Non ve lo astrinse un uso,
   qual ch’ei sia, della guerra? ed al Senato
   vera non parve questa scusa? e largo
   d’ogni onor poscia non gli fu? L’aiuto                             120
   al Trevisan negato? Era più grave
   periglio il darlo; era l’impresa ordita
   ignaro il Conte; ei non fu chiesto a tempo.
   E la sentenza che a sì turpe esiglio
   il Trevisan dannò, tutta la colpa                                       125
   non rovesciò sovra di lui? Cremona?
   Chi di Cremona meditò l’acquisto?
   Chi l’ordin dié che si tentasse? Il Conte.
   Del popol tutto che a rumor si leva
   non può scarso drappel l’inaspettato                               130
   impeto sostener; ritorna al campo,
   non scemo pur d’un combattente. Al Duce
   buon consiglio non parve incontro un novo
   impensato nemico avventurarsi;
   e abbandonò l’impresa. Ella è, fra tante                          135
   sì ben compiute, una fallita impresa;
   ma il tradimento ov’è? Fiero, oltraggioso
   da gran tempo, voi dite, è il suo linguaggio:
   un troppo lungo tollerar macchiato
   ha l’onor nostro. Ed un’insidia, il lava?                            140
   E poi che un nodo, un dì sì caro, ormai
   non può tener Venezia e il Carmagnola,
   chi ci vieta disciorlo? Un’amistade
   sì nobilmente stretta, or non potria
   nobilmente finir? Come! anche in questo                         145
   un periglio si scorge! Il genio ardito
   del condottier; la fama sua si teme,
   de’ soldati l’amor! Se render piena
   testimonianza al ver, colpa si stima;
   se a tal trista temenza oppor non lice                               150
   la lealtà del Conte; il senso almeno
   del nostro onor la scacci. Abbiam di noi
   un più degno concetto; e non si creda
   che a tal Venezia giunta sia, che possa
   porla in periglio un uom. Lasciam codeste                       155
   cure ai tiranni: ivi il valor si tema
   ove lo scettro è in una mano, e basta
   a strapparlo un guerrier che dica: io sono
   più degno di tenerlo; e a’ suoi compagni
   il persuada. Ei che tentar potria?                                     160
   Al Duca ritornar, dicesi, e seco
   le schiere trar nel tradimento. Al Duca?
   All’uom che un’onta non perdona mai,
   né un gran servigio, ritornar colui
   che gli compose e che gli scosse il trono?                        165
   Chi non poté restargli amico in tempo
   che pugnava per lui, ridivenirlo
   dopo averlo sconfitto! Avvicinarsi
   a quella man che in questo asilo istesso                           170
   comprò un pugnal per trapassargli il petto!
   L’odio solo, o signor, creder lo puote.
   Ah! qual sia la cagion che innanzi a questo
   temuto seggio fa trovarmi, un’alta
   grazia mi fia, se fare intender posso
   anco una volta il ver: qualche lusinga                               175
   io nutro ancor che non fia forse invano.
   Sì, l’odio cieco, l’odio sol potea
   far che fosse in Senato un tal sospetto
   proposto, inteso, tollerato. Ha molti
   fra noi nemici il Conte: or non ricerco                              180
   perché lo siano: il son. Quando nascoste
   all’ombra della pubblica vendetta,
   le nimistà private io disvelai;
   quando chiedea che a provveder s’avesse
   l’util soltanto dello Stato, e il giusto;                                185
   allora ufizio io non facea d’amico,
   ma di fedel patrizio. Io già non scuso
   il mio parlar: quando proporre intesi
   che sotto il vel di consultarlo ei sia
   richiamato a Venezia, e gli si faccia                                 190
   onor più dell’usato, e tutto questo
   per tirarlo nel laccio... allor, nol nego...
   MARINO
   Più non pensaste che all’amico.
   MARCO
   Allora,
   dissimular nol vo’, tutte sentii
   le potenze dell’alma sollevarsi                                         195
   contro un consiglio... ah fu seguito!... Un solo
   pensier non fu; fu della patria mia
   l’onor ch’io vedo vilipeso, il grido
   de’ nemici e de’ posteri; fu il primo
   senso d’orror che un tradimento inspira                          200
   all’uom che dee stornarlo, o starne a parte.
   E se pietà d’un prode a tanti affetti
   pur si mischiò, dovea, poteva io forse
   farla tacer? Son reo d’aver creduto
   che util puote a Venezia esser soltanto                            205
   ciò che l’onora, e che si può salvarla
   senza farsi...
   MARINO
   Non più: se tanto udii
   fu perché ai Capi del Consiglio importa
   di conoscervi appien. Piacque aspettarvi
   ai secondi pensier; veder si volle                                     210
   se un più maturo ponderar v’ avea
   tratto a più saggio e più civil consiglio.
   Or, poiché indarno si sperò, credete
   voi che un decreto del Senato io voglia
   difender ora innanzi a voi? Si tratta                                 215
   la vostra causa qui. Pensate a voi,
   non alla patria: ad altre, e forti, e pure
   mani è commessa la sua sorte: e nulla
   a cor le sta che il suo voler vi piaccia,
   ma che s’adempia, e che non sia sofferto                        220
   pure il pensier di porvi impedimento.
   A questo vegliam noi. Quindi io non voglio
   altro da voi che una risposta. Espresso
   sovra quest’uomo è del Senato il voto;
   compir si dee; voi, che farete intanto?                             225
   MARCO
   Quale inchiesta, signor!
   MARINO
   Voi siete a parte
   d’un gran disegno; e in vostro cor bramate
   che a voto ei vada: non è ver?
   MARCO
   Che importa
   ciò ch’io brami, allo Stato? A prova ormai
   sa che dell’opre mie non è misura                                   230
   il desiderio, ma il dover.
   MARINO
   Qual pegno
   abbiam da voi che lo farete? In nome
   del Tribunale un ve ne chiedo: e questo,
   se lo negate, un traditor vi tiene.
   Quel che si serba ai traditor, v’è noto.                            235
   MARCO
   Io... Che si vuol da me?
   MARINO
   Riconoscete
   che patria è questa a cui bastovvi il core
   di preferire uno stranier. Sui figli
   a stento e tardi essa la mano aggrava;
   e a perderne soltanto ella consente                                 240
   quei che salvar non puote. Ogni error vostro
   è pronta ad obbliar; v’apre ella stessa
   la strada al pentimento.
   MARCO
   Al pentimento!
   Ebben, che strada?
   MARINO
   Il Mussulman disegna
   d’assalir Tessalonica: voi siete                                        245
   colà mandato. A quale ufizio, quivi
   noto vi fia: pronta è la nave; ed oggi
   voi partirete.
   MARCO
   Ubbidirò.
   MARINO
   Ma un’arra
   si vuol di vostra fé: giurar dovete
   per quanto è sacro, che in parole o in cenni                     250
   nulla per voi traspirerà di quanto
   oggi s’è fisso. Il giuramento è questo:
   (gli presenta un foglio)
   sottoscrivete.
   MARCO
   (legge)
   E che, signor? Non basta?..
   MARINO
   E per ultimo, udite. Il messo è in via
   che porta al Conte il suo richiamo. Ov’egli                      255
   pronto ubbidisca, ed in Venezia arrivi,
   giustizia troverà... forse clemenza.
   Ma se ricusa, se sta in forse, e segno
   dà di sospetto; un gran segreto udite,
   e tenetelo in voi; l’ordine è dato                                      260
   che dalle nostre man vivo ei non esca.
   Il traditor che dargli un cenno ardisce,
   quei l’uccide, e si perde. Io più non odo
   nulla da voi: scrivete; ovvero...
   (gli porge il foglio)
   MARCO
   Io scrivo.
   (prende il foglio e lo sottoscrive)
   MARINO
   Tutto è posto in obblio. La vostra fede                           265
   ha fatto il più; vinto ha il dover: l’impresa
   compirsi or dee dalla prudenza: e questa
   non può mancarvi, sol che in mente abbiate
   che ormai due vite in vostra man son poste. (parte)
   SCENA II
   MARCO
   Dunque è deciso!... un vil son io!... fui posto                   270
   al cimento; e che feci?... Io prima d’oggi
   non conoscea me stesso!... Oh che segreto
   oggi ho scoperto! Abbandonar nel laccio
   un amico io potea! Vedergli al tergo
   l’assassino venir, veder lo stile                                        275
   che su lui scende, e non gridar: ti guarda!
   Io lo potea; l’ho fatto... io più nol devo
   salvar; chiamato ho in testimonio il cielo
   d’un’infame viltà... la sua sentenza
   ho sottoscritta... ha la mia parte anch’io                          280
   nel suo sangue! Oh che feci!... io mi lasciai
   dunque atterrir?... La vita?... Ebben, talvolta
   senza delitto non si può serbarla:
   nol sapeva io? Perché promisi adunque?
   Per chi tremai? per me? per me? per questo                   285
   disonorato capo?... o per l’amico?
   La mia ripulsa accelerava il colpo,
   non lo stornava. O Dio, che tutto scerni,
   rivelami il mio cor; ch’io veda almeno
   in quale abisso son caduto, s’io                                      290
   fui più stolto; o codardo, o sventurato.
   O Carmagnola, tu verrai!... sì certo
   egli verrà... se anche di queste volpi
   stesse. in sospetto, ei penserà che Marco
   è senator, che anch’io l’invito; e lunge                             295
   ogni dubbiezza scaccerà; rimorso
   avrà d’averla accolta... Io son che il perdo!
   Ma... di clemenza non parlò quel vile?
   Sì, la clemenza che il potente accorda
   all’uom che ha tratto nell’agguato, a quello                      300
   ch’egli medesmo accusa, e che gli preme
   di trovar reo. Clemenza all’innocente!
   Oh! il vil son io che gli credetti, o volli
   credergli; ei la nomò perché comprese
   che bastante a corrompermi non era                               305
   il rio timor che a goccia a goccia ei fea
   scender sull’alma mia: vide che d’uopo
   m’era un nobil pretesto; e me lo diede.
   Gli astuti! i traditor! Come le parti
   distribuite hanno tra lor costoro!                                     310
   Uno il sorriso, uno il pugnal, quest’altro
   le minacce... e la mia?... voller che fosse
   debolezza ed inganno... ed io l’ho presa!
   Io li spregiava; e son da men di loro!
   Ei non gli sono amici!... Io non doveva                            315
   essergli amico: io la cercai; fui preso
   dall’alta indole sua, dal suo gran nome.
   Perché dapprima non pensai che incarco
   è l’amistà d’un uom che agli altri è sopra?
   Perché allor correr solo io nol lasciai                               320
   la sua splendida via, s’io non potea
   seguire i passi suoi? La man gli stesi;
   il cortese la strinse; ed or ch’ei dorme,
   e il nemico gli è sopra, io la ritiro:
   ei si desta, e mi cerca; io son fuggito!                              325
   Ei mi dispregia, e more! Io non sostengo
   questo pensier... Che feci!... Ebben, che feci?
   Nulla finora: ho sottoscritto un foglio,
   e nulla più. Se fu delitto il giuro,
   non fia virtù l’infrangerlo? Non sono                               330
   che all’orlo ancor del precipizio; il vedo,
   e ritrarmi poss’io... Non posso un mezzo
   trovar?... Ma s’io l’uccido? Oh! forse il disse
   per atterrirmi... E se davvero il disse?
   Oh empi, in quale abbominevol rete                                335
   stretto m’avete! Un nobile consiglio
   per me non c’è; qualunque io scelga, è colpa.
   Oh dubbio atroce!... Io li ringrazio; ei m’hanno
   statuito un destino; ei m’hanno spinto
   per una via; vi corro: almen mi giova                               340
   ch’io non la scelsi: io nulla scelgo; e tutto
   ch’io faccio è forza e volontà d’altrui.
   Terra ov’io nacqui, addio per sempre: io spero
   ché ti morrò lontano, e pria che nulla
   sappia di te: lo spero: in fra i perigli                                 345
   certo per sua pietade il ciel m’invia.
   Ma non morrò per te. Che tu sii grande
   e gloriosa, che m’importa? Anch’io
   due gran tesori avea, la mia virtude,
   ed un amico; e tu m’hai tolto entrambi.                            350
   (parte)
   SCENA III
   Tenda del Conte.
   IL CONTE e GONZAGA
   IL CONTE
   Ebben, che raccogliesti?
   GONZAGA
   Io favellai,
   come imponesti, ai Commissari; e chiaro
   mostrai che tutta delle vinte navi
   riman la colpa e la vergogna a lui
   che non le seppe comandar; che infausta                         355
   la giornata gli fu perché la imprese
   senza di te; che tu da lui chiamato
   tardi in soccorso, romper non dovevi
   i tuoi disegni per servir gli altrui;
   che l’armi lor, tanto in tua man felici,                               360
   sempre il sarian, se questa guerra fosse
   commessa al senno ed al voler d’un solo.
   IL CONTE
   Che dicon essi?
   GONZAGA
   Si mostrar convinti
   ai detti miei: dissero in pria, che nulla
   dissimular volean; che amaro al certo                              365
   de’ perduti navigli era il pensiero,
   e di Cremona la fallita impresa;
   ma che son lieti di saper che il fallo
   di te non fu; che di chiunque ei sia,
   da te l’ammenda aspettano.
   IL CONTE
   Tu il vedi,                          370
   o mio Gonzaga; se dai fede al volgo,
   sommo riguardo, arte profonda è d’uopo
   con questi uomin di Stato. Io fui con essi
   quel ch’esser soglio; rigettai l’ingiuste
   pretese lor, scender li feci alquanto                                 375
   dall’alto seggio ove si pon chi avvezzo
   non è a vedersi altri che schiavi intorno;
   io mostrai lor fino a che segno io voglio
   che altri signor mi sia: d’allora in poi
   mai non l’hanno passato; io li provai                               380
   saggi sempre e cortesi.
   GONZAGA
   E non pertanto
   dar consiglio ad alcuno io non vorrei
   di tener, questa via. Te da gran tempo
   la gloria segue e la fortuna; ad essi
   util tu sei, tu necessario e caro,                                       385
   terribil forse: e tu la prova hai vinta;
   se pur può dirsi che sia vinta ancora.
   IL CONTE
   Che dubbi hai tu?
   GONZAGA
   Tu, che certezza? Io vedo
   dolci sembianti, e dolci detti ascolto:
   segni d’amor; ma pur, l’odio che teme,                           390
   altri ne ha forse?
   IL CONTE
   No: di questo io nulla
   sono in pensier. Troppo a regnar son usi;
   e san che all’uom da cui s’ottiene il molto
   chieder non dessi improntamente il meno.
   E poi, mi credi, io li guardai dappresso:                           395
   questa cupa arte lor, questi intricati
   avvolgimenti di menzogna, questo
   finger, tacere, antiveder, di cui
   tanto li loda e li condanna il mondo
   è meno assai di quel che al mondo appare.                     400
   GONZAGA
   Se pur non era di lor arte il colmo
   il parer tali a te.
   IL CONTE
   No: tu li vedi
   con l’occhio altrui: quando col tuo li veda,
   tu cangerai pensiero. Havvene assai
   di schietti e buoni; havvene tal che un’alta                       405
   anima chiude, a cui pensier non osa
   avvicinarsi che gentil non sia:
   anima dolce e disdegnosa, in cui
   legger non puoi, che tu non sia compreso
   d’amor, di riverenza, e di desio                                       410
   di somigliarle. Non temer; non sono
   di me scontenti; e quando il fosser mai,
   io lo saprei ben tosto.
   GONZAGA
   Il Ciel non voglia
   che tu t’inganni.
   IL CONTE
   Altro mi duol: son stanco
   di questa guerra che condur non posso                           415
   a modo mio. Quand’io non era ancora
   più che un soldato di ventura, ascoso
   e perduto tra i mille, ed io sentia
   che al loco mio non m’avea posto il cielo,
   e dell’oscurità l’aria affannosa                                         420
   respirava fremendo, ed il comando
   sì bello mi parea,... chi m’avria detto
   che l’otterrei, che a gloriosi duci,
   e a tanti e così prodi e così fidi
   soldati io sarei capo; e che felice                                     425
   io non sarei perciò!...
   (entra un Soldato)
   Che rechi?
   SOLDATO
   Un foglio
   di Venezia.
   (gli porge il foglio, e parte)
   IL CONTE
   Vediam.
   (legge)
   Non tel diss’io?
   mai non gli ebbi più amici: a loro il Duca
   chiede la pace, e conferir con meco
   braman di ciò. Vuoi tu seguirmi?
   GONZAGA
   Io vengo.                 430
   IL CONTE
   Che dì tu di tal pace?
   GONZAGA
   Ad un soldato
   tu lo domandi?
   IL CONTE
   È ver; ma questa è guerra?
   O mia consorte, o figlia mia, tra poco
   io rivedrovvi, abbraccerò gli amici:
   questo è contento al certo. Eppur del tutto                      435
   esser lieto non so: chi potria dirmi
   se un sì bel campo io rivedrò più mai?
 
   FINE DELL’ATTO QUARTO
 
   ATTO QUINTO
   SCENA I
   Notte. Sala del Consiglio dei Dieci illuminata.
   Il DOGE, i DIECI, e il CONTE seduti.
   IL DOGE
   (al Conte)
   A questi patti offre la pace il Duca;
   su ciò chiede il Consiglio il parer vostro.
   IL CONTE
   Signori, un altro io ve ne diedi; e molto
   promisi allor: vi piacque. Io attenni in parte
   quel che promesso avea: ma lunge ancora                       5
   dalle parole è il fatto; ed or non voglio
   farle obbliar però: sul labbro mio
   imprevidente militar baldanza
   non le mettea. Di novo avviso or chiesto,
   altro non posso che ridirvi il primo.                                 10
   Se intera e calda e risoluta guerra
   far disponete, ah! siete a tempo: è questa
   la miglior scelta ancora. Ei vi abbandona
   Bergamo e Brescia; e non son vostre? L’armi
   le han fatte vostre: ei non può tanto offrirvi                      15
   quanto sperar di torgli v’è concesso.
   Ma, da un guerrier che vi giurò sua fede
   voi non volete altro che il ver, se il modo
   mutar di questa guerra a voi non piace,
   accettate gli accordi.
   IL DOGE
   Il parlar vostro                            20
   accenna assai, ma poco spiega: un chiaro
   parer vi si domanda.
   IL CONTE
   Uditel dunque.
   Scegliete un duce, e confidate in lui:
   tutto ei possa tentar; nulla si tenti
   senza di lui: largo poter gli date;                                      25
   stretto conto ei ne renda. Io non vi chiedo
   ch’io sia l’eletto: dico sol che molto
   sperar non lice da chi tal non sia.
   MARINO
   Non l’eravate voi quando i prigioni
   sciolti voleste, e il furo? Eppur la guerra                          30
   più risoluta non si fea per questo,
   né certa più. Duce e signor nel campo,
   forse concesso non l’avreste.
   IL CONTE
   Avrei
   fatto di più: sotto alle mie bandiere
   venian quei prodi; e di Filippo il soglio                            35
   voto or sarebbe, o sederiavi un altro.
   IL DOGE
   Vasti disegni avete.
   IL CONTE
   E l’adempirli
   sta in voi: se ancor nol son, n’è cagion sola
   che la man che il dovea sciolta non era.
   MARINO
   A noi si disse altra cagion: che il Duca                             40
   vi commosse a pietà, che l’odio atroce
   che già portaste al signor vostro antico,
   sovra i presenti il rovesciaste intero.
   IL CONTE
   Questo vi fu riferto? Ella è sventura
   di chi regge gli Stati udir con pace                                   45
   l’impudente menzogna, i turpi sogni
   d’un vil di cui non degneria privato
   le parole ascoltar.
   MARINO
   Sventura è vostra
   che a tal riferto il vostro oprar s’accordi,
   che il rio linguaggio lo confermi, e il vinca.                       50
   IL CONTE
   Il vostro grado io riverisco in voi,
   e questi generosi in mezzo a cui
   v’ha posto il caso: e mi conforta almeno
   che il non mertato onor di che lor piacque
   cingere il loro capitan, lo stesso                                      55
   udirvi io qui, mostra ch’essi han di lui
   altro pensiero.
   IL DOGE
   Uno è il pensier di tutti.
   IL CONTE
   E qual?
   IL DOGE
   L’udiste.
   IL CONTE
   È del Consiglio il voto
   quello che udii?
   IL DOGE
   Sì: il crederete al Doge.
   IL CONTE
   Questo dubbio di me?...
   IL DOGE
   Già da gran tempo                 60
   non è più dubbio.
   IL CONTE
   E m’invitaste a questo?
   E taceste finor?
   IL DOGE
   Sì, per punirvi
   del tradimento, e non vi dar pretesti
   per consumarlo.
   IL CONTE
   Io traditor! Comincio
   a comprendervi alfin: pur troppo altrui                             65
   creder non volli. Io traditor! Ma questo
   titolo infame infimo a me non giunge:
   ei non è mio; chi l’ha mertato il tenga.
   Ditemi stolto: il soffrirò, che il merto:
   tale è il mio posto qui; ma con null’altro                          70
   lo cambierei, ch’egli è il più degno ancora.
   Io guardo, io torno col pensier sul tempo
   che fui vostro soldato: ella è una via
   sparsa di fior. Segnate il giorno in cui
   vi parvi un traditor! Ditemi un giorno                               75
   che di grazie e di lodi e di promesse
   colmo non sia! Che più? Qui siedo; e quando
   io venni a questo che alto onor parea,
   quando più forte nel mio cor parlava
   fiducia, amor, riconoscenza, e zelo...                               80
   Fiducia no: pensa a fidarsi forse
   quei che invitato tra gli amici arriva?
   Io veniva all’inganno! Ebben, ci caddi;
   ella è così. Ma via; poiché gettato
   è il finto volto del sorriso ormai,                                      85
   sia lode al ciel; siamo in un campo almeno
   che anch’io conosco. A voi parlare or tocca;
   e difendermi a me: dite, quai sono
   i tradimenti miei?
   IL DOGE
   Gli udrete or ora
   dal Collegio segreto.
   IL CONTE
   Io lo ricuso.                                90
   Ciò che feci per voi, tutto lo feci
   alla luce del sol; renderne conto
   tra insidiose tenebre non voglio.
   Giudice del guerrier, solo è il guerriero.
   Voglio scolparmi a chi m’intenda; voglio                         95
   che il mondo ascolti le difese, e veda...
   IL DOGE
   Passato è il tempo di voler.
   IL CONTE
   Qui dunque
   mi si fa forza? Le mie guardie!
   (alzando la voce, si move per uscire)
   IL DOGE
   Sono
   lunge di qui. Soldati!
   (entrano genti armate)
   Eccovi ormai
   le vostre guardie.
   IL CONTE
   Io son tradito!
   IL DOGE
   Un saggio                100
   pensier fu dunque il rimandarle: a torto
   non si pensò che, in suo tramar sorpreso,
   farsi ribelle un traditor potria.
   IL CONTE
   Anche un ribelle, sì: come v’aggrada
   ormai potete favellar.
   IL DOGE
   Sia tratto                                    105
   al Collegio segreto.
   IL CONTE
   Un breve istante
   udite in pria. Voi risolveste, il vedo,
   la morte mia; ma risolvete insieme
   la vostra infamia eterna. Oltre l’antico
   confin l’insegna del Leon si spiega                                  110
   su quelle torri, ove all’Europa è noto
   ch’io la piantai. Qui tacerassi, è vero;
   ma intorno a voi, dove non giunge il muto
   terror del vostro impero, ivi librato,
   ivi in note indelebili fia scritto                                          115
   il benefizio e la mercé. Pensate
   ai vostri annali, all’avvenir. Tra poco
   il dì verrà che d’un guerriero ancora
   uopo vi sia: chi vorrà farsi il vostro?
   Voi provocate la milizia. Or sono                                    120
   in vostra forza, è ver; ma vi sovvenga
   ch’io non ci nacqui, che tra gente io nacqui
   belligera, concorde: usa gran tempo
   a guardar come sua questa qualunque
   gloria d’un suo concittadin, non fia                                  125
   che straniera all’oltraggio ella si tenga.
   Qui c’è un inganno: a ciò vi trasse un qualche
   vostro nemico e mio: voi non credete
   ch’io vi tradissi. È tempo ancora.
   IL DOGE
   È tardi.
   Quando il delitto meditaste, e baldo                                130
   affrontavate chi dovea punirlo,
   tempo era allor d’antiveggenza.
   IL CONTE
   Indegno!
   Tu mi rendi a me stesso. Tu credesti
   ch’io chiedessi pietà, ch’io ti pregassi:
   tu forse osasti di pensar che un prode                             135
   pe’ giorni suoi tremava. Ah! tu vedrai
   come si mor. Va; quando l’ultim’ora
   ti coglierà sul vil tuo letto, incontro
   non le starai con quella fronte al certo,
   che a questa infame, a cui mi traggi, io reco.                    140
   (parte il Conte tra i Soldati)
   SCENA II
   Casa del Conte.
   ANTONIETTA, e MATILDE
   MATILDE
   Ecco l’aurora; e il padre ancor non giunge.
   ANTONIETTA
   Ah! tu nol sai per prova: i lieti eventi
   tardi, aspettati giungono, e non sempre.
   Presta soltanto è la sventura, o figlia:
   intraveduta appena, ella c’è sopra.                                  145
   Ma la notte passò: l’ore penose
   del desio più non son: tra pochi istanti
   quella del gaudio sonerà. Non puote
   ei più tardar; da questo indugio io prendo
   un fausto augurio: il consultar sì lungo                              150
   tratto non han, che per fermar la pace.
   Ei sarà nostro, e per gran tempo.
   MATILDE
   O madre,
   anch’io lo spero. Assai di notti in pianto,
   e di giorni in sospetto abbiam passati.
   È tempo ormai che, ad ogni istante, ad ogni                    155
   novella, ad ogni susurrar del volgo
   più non si tremi, e all’alma combattuta
   quell’orrendo pensier più non ritorni:
   forse colui che sospirate, or more.
   ANTONIETTA
   Oh rio pensier! ma almen per ora è lunge.                       160
   Figlia, ogni gioia col dolor si compra.
   Non ti sovvien quel dì che il tuo gran padre
   tratto in trionfo, tra i più grandi accolto,
   portò l’insegne de’ nemici al tempio?
   MATILDE
   Oh giorno!
   ANTONIETTA
   Ognun parea minor di lui;                            165
   l’aria sonava del suo nome; e noi
   scevre dal volgo, in alto loco intanto
   contemplavam quell’uno in cui rivolti
   eran tutti gli sguardi: inebbriato
   il cor tremava, e ripetea: siam sue.                                  170
   MATILDE
   Felici istanti!
   ANTONIETTA
   Che avevam noi fatto
   per meritarli? A questa gioia il cielo
   ci trascelse tra mille. Il ciel ti scelse,
   il ciel ti scrisse un sì gran nome in fronte;
   tal don ti fece, che a chiunque il rechi,                             175
   n’andrà superbo. A quanta invidia è segno
   la nostra sorte! E noi dobbiam scontarla
   con queste angosce.
   MATILDE
   Ah! son finite... ascolta;
   odo un batter di remi... ei cresce... ei cessa...
   Si spalancan le porte... ah! certo ei giunge:                      180
   o madre, io vedo un’armatura; è lui.
   ANTONIETTA
   Chi mai saria s’egli non fosse?... O sposo...
   (va verso la scena)
 
   SCENA III
   GONZAGA, e dette.
   ANTONIETTA
   Gonzaga!... ov’è il mio sposo? ov’è?... Ma voi
   non rispondete? Oh cielo! il vostro aspetto
   annunzia una sventura.
   GONZAGA
   Ah che pur troppo                   185
   annunzia il vero!
   MATILDE
   A chi sventura?
   GONZAGA
   O donne!
   Perché un incarco sì crudel m’è imposto?
   ANTONIETTA
   Ah! voi volete esser pietoso, e siete
   crudel: tremar più non ci fate. In nome
   di Dio, parlate; ov’è il mio sposo?
   GONZAGA
   Il cielo                   190
   vi dia la forza d’ascoltarmi. Il Conte...
   MATILDE
   Forse è tornato al campo?
   GONZAGA
   Ah! più non torna...
   Egli è in disgrazia de’ Signori... è preso.
   ANTONIETTA
   Egli preso! perché?
   GONZAGA
   Gli danno accusa
   di tradimento.
   ANTONIETTA
   Ei traditore?
   MATILDE
   Oh padre!                         195
   ANTONIETTA
   Or via, seguite: preparate al tutto
   siam noi: che gli faran?
   GONZAGA
   Dal labbro mio
   voi non l’udrete.
   ANTONIETTA
   Ahi l’hanno ucciso!
   GONZAGA
   Ei vive;
   ma la sentenza è proferita.
   ANTONIETTA
   Ei vive?
   Non pianger, figlia, or che d’oprare è il tempo.               200
   Gonzaga, per pietà, non vi stancate
   della nostra sventura; il ciel v’affida
   due derelitte: ei v’era amico: andiamo,
   siateci scorta ai giudici. Vien meco,
   poverella innocente: oh! vieni: in terra                              205
   c’è ancor pietà: son sposi e padri anch’essi.
   Mentre scrivean l’empia sentenza, in mente
   non venne lor ch’egli era sposo e padre.
   Quando vedran di che dolor cagione
   è una parola di lor bocca uscita,                                     210
   ne fremeranno anch’essi; ah! non potranno
   non rivocarla: del dolor l’aspetto
   è terribile all’uom. Forse scusarsi
   quel prode non degnò, rammentar loro
   quanto per essi oprò; noi rammentarlo                            215
   sapremo. Ah! certo ei non pregò; ma noi,
   noi pregheremo.
   (in atto di partire)
   GONZAGA
   Oh ciel, perché non posso
   lasciarvi almen questa speranza! A preghi
   loco non c’è; qui i giudici son sordi,
   implacabili, ignoti: il fulmin piomba,                                 220
   la man che il vibra è nelle nubi ascosa.
   Solo un conforto v’è concesso, il tristo
   conforto di vederlo, ed io vel reco.
   Ma il tempo incalza. Fate cor; tremenda
   è la prova; ma il Dio degl’infelici                                     225
   sarà con voi.
   MATILDE
   Non c’è speranza?
   ANTONIETTA
   Oh figlia!
   (partono)
   SCENA IV
   Prigione.
   IL CONTE
   A quest’ora il sapranno. Oh perché almeno
   lunge da lor non moio! Orrendo, è vero,
   lor giungeria l’annunzio; ma varcata
   l’ora solenne del dolor saria;                                           230
   e adesso innanzi ella ci sta: bisogna
   gustarla a sorsi, e insieme. O campi aperti!
   o sol diffuso! o strepito dell’armi!
   o gioia de’ perigli! o trombe! o grida
   de’ combattenti! o mio destrier! tra voi                           235
   era bello il morir. Ma... ripugnante
   vo dunque incontro al mio destin, forzato,
   siccome un reo, spargendo in sulla via
   voti impotenti e misere querele?
   E Marco, anch’ei m’avria tradito! Oh vile                       240
   sospetto! oh dubbio! oh potess’io deporlo
   pria di morir! Ma no: che val di novo
   affacciarsi alla vita, e indietro ancora
   volgere il guardo ove non lice il passo?
   E tu, Filippo, ne godrai! Che importa?                            245
   Io le provai quest’empie gioie anch’io:
   quel che vagliano or so. Ma rivederle!
   ma i lor gemiti udir! l’ultimo addio
   da quelle voci udir! tra quelle braccia
   ritrovarmi... e staccarmene per sempre!                          250
   Eccole! O Dio, manda dal ciel sovr’esse
   un guardo di pietà.
   SCENA V
   ANTONIETTA, MATILDE, GONZAGA, e il CONTE
   ANTONIETTA
   Mio sposo!...
   MATILDE
   Oh padre!
   ANTONIETTA
   Così ritorni a noi? Questo è il momento
   bramato tanto?...
   IL CONTE
   O misere, sa il cielo
   che per voi sole ei m’è tremendo. Avvezzo                     255
   io son da lungo a contemplar la morte,
   e ad aspettarla. Ah! sol per voi bisogno
   ho di coraggio; e voi, voi non vorrete
   tormelo, è vero? Allor che Dio sui boni
   fa cader la sventura, ei dona ancora                                260
   il cor di sostenerla. Ah! pari il vostro
   alla sventura or sia. Godiam di questo
   abbracciamento: è un don del cielo anch’esso.
   Figlia, tu piangi! e tu, consorte!... Ah! quando
   ti feci mia, sereni i giorni tuoi                                           265
   scorreano in pace; io ti chiamai compagna
   del mio tristo destin: questo pensiero
   m’avvelena il morir. Deh ch’io non veda
   quanto per me sei sventurata!
   ANTONIETTA
   O sposo
   de’ miei bei dì, tu che li festi; il core                                270
   vedimi; io moio di dolor; ma pure
   bramar non posso di non esser tua.
   IL CONTE
   Sposa, il sapea quel che in te perdo; ed ora
   non far che troppo il senta.
   MATILDE
   Oh gli omicidi!
   IL CONTE
   No, mia dolce Matilde; il tristo grido                               275
   della vendetta e del rancor non sorga
   dall’innocente animo tuo, non turbi
   quest’istanti: son sacri. Il torto è grande;
   ma perdona, e vedrai che in mezzo ai mali
   un’alta gioia anco riman. La morte!                                 280
   Il più crudel nemico altro non puote
   che accelerarla. Oh! gli uomini non hanno
   inventata la morte: ella saria
   rabbiosa, insopportabile: dal cielo
   essa ci viene; e l’accompagna il cielo                              285
   con tal conforto, che né dar né torre
   gli uomini ponno. O sposa, o figlia, udite
   le mie parole estreme: amare, il vedo,
   vi piombano sul cor; ma un giorno avrete
   qualche dolcezza a rammentarle insieme.                         290
   Tu, sposa, vivi; il dolor vinci, e vivi;
   questa infelice orba non sia del tutto.
   Fuggi da questa terra, e tosto ai tuoi
   la riconduci: ella è lor sangue; ad essi
   fosti sì cara un dì! Consorte poi                                      295
   del lor nemico, il fosti men; le crude
   ire di Stato avversi fean gran tempo
   de’ Carmagnola e de’ Visconti il nome.
   Ma tu riedi infelice; il tristo oggetto
   dell’odio è tolto: è un gran pacier la morte.                      300
   E tu, tenero fior, tu che tra l’armi
   a rallegrare il mio pensier venivi,
   tu chini il capo: oh! la tempesta rugge
   sopra di te! tu tremi, ed al singulto
   più non regge il tuo sen; sento sul petto                           305
   le tue infocate lagrime cadermi;
   e tergerle non posso: a me tu sembri
   chieder pietà, Matilde: ah! nulla il padre
   può far per te; ma pei diserti in cielo
   c è un Padre, il sai. Confida in esso, e vivi                       310
   a dì tranquilli se non lieti: Ei certo
   te li prepara. Ah! perché mai versato
   tutto il torrente dell’angoscia avria
   sul tuo mattin, se non serbasse al resto
   tutta la sua pietà? Vivi, e consola                                    315
   questa dolente madre. Oh ch’ella un giorno
   a un degno sposo ti conduca in braccio!
   Gonzaga, io t’offro questa man che spesso
   stringesti il dì della battaglia, e quando
   dubbi eravam di rivederci a sera.                                    320
   Vuoi tu stringerla ancora, e la tua fede
   darmi che scorta e difensor sarai
   di queste donne, fin che sian rendute
   ai lor congiunti?
   GONZAGA
   Io tel prometto.
   IL CONTE
   Or sono
   contento. E quindi, se tu riedi al campo,                          325
   saluta i miei fratelli, e dì lor ch’io
   moio innocente: testimon tu fosti
   dell’opre mie, de’ miei pensieri, e il sai.
   Dì lor che il brando io non macchiai con l’onta
   d’un tradimento: io nol macchiai: son io                           330
   tradito. E quando squilleran le trombe,
   quando l’insegne agiteransi al vento,
   dona un pensiero al tuo compagno antico.
   E il dì che segue la battaglia, quando
   sul campo della strage il sacerdote,                                 335
   tra il suon lugubre, alzi le palme, offrendo
   il sacrifizio per gli estinti al cielo,
   ricordivi di me, che anch’io credea
   morir sul campo.
   ANTONIETTA
   Oh Dio, pietà di noi!
   IL CONTE
   Sposa, Matilde, ormai vicina è l’ora;                               340
   convien lasciarci... addio.
   MATILDE
   No, padre...
   IL CONTE
   Ancora
   una volta venite a questo seno;
   e per pietà partite.
   ANTONIETTA
   Ah no! dovranno
   staccarci a forza.
   (si sente uno strepito d’armati)
   MATILDE
   Oh qual fragor!
   ANTONIETTA
   Gran Dio!
   (s’apre la porta di mezzo, e s’affacciano genti armate; il capo di esse s’avanza verso il Conte: le due donne cadono svenute)
   IL CONTE
   O Dio pietoso, tu le involi a questo                                 345
   crudel momento; io ti ringrazio. Amico,
   tu le soccorri, a questo infausto loco
   le togli; e quando rivedran la luce
   dì lor... che nulla da temer più resta.
 
   FINE DELLA TRAGEDIA
   ([1]) Sono differenti in questo (l’Epopea e la Tragedia), che quella ha il verso misurato semplice, ed è raccontativa, e formata di lunghezza; e questa si sforza, quanto può il più, di stare sotto un giro del sole, o di mutarne poco; ma l’Epopea è smoderata per tempo, ed in ciò è differente dalla Tragedia. Traduzione del Castelvetro.
   ([2]) Corso di Letteratura drammatica, Lezione x.
   ([3]) Batteux, Principes de la littérature, Traité v, chap. 4.
   ([4]) Marmontel, Éléments de littérature, art. Unité.
   ([5]) Batteux, l. c.
   ([6]) Fleury, Mœurs des Israélites, x.
   ([7]) Altre circostanze non hanno permesso all’autore di mantenere questa promessa. E lo dice senza riguardo, sapendo bene che sono mancanze le quali, lungi dal far perdere a un autore il titolo di galantuomo, gli acquistano spesso quello di benemerito. Del rimanente, questo punto è stato toccato in parte nella Lettre à M.r Ch... sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie. E forse, per ciò che riguarda la questione generale, basta osservare che tutta l’argomentazione di quegli scrittori è fondata sulla supposizione, che il dramma non possa interessare, se non in quanto comunichi allo spettatore o al lettore le passioni rappresentate in esso. Supposizione venuta dall’aver preso per condizione universale e naturale del dramma ciò ch’era un fatto speciale de’ drammi esaminati da loro, e della quale la più parte de’ drammi immortali di Shakespeare sono una confutazione tanto evidente quanto magnifica.
   ([8]) Corso di Letteratura drammatica, Lezione III.
   ([9]) Filippo la fece decapitare come rea d’adulterio con Michele Orombelli. Il più degli storici la credono innocente.
   ([10]) Hist. lib. 4; Rer. Ital. Script., T. xix, col. 72.
   ([11]) Tutto questo racconto è cavato dal Bigli.
   ([12]) Sanuto, Vite dei duchi di Venezia; Rer. Ital., xxii, 978.
   ([13]) Machiavelli, Ist. Fior., Lib. 4.
   ([14]) Per servire alla dignità del verso, il nome di quest’ultimo personaggio nella tragedia venne cambiato con quello di Fortebraccio. La storia stessa ha suggerito questo cambiamento; giacché il Piccinino era nipote di Braccio Fortebracci, e dopo la morte dello zio fu capo de’ soldati della fazione Braccesca.
   ([15]) Istos quoque jubeo solita lege dimitti. Bigli, lib. 6.
   ([16]) Ad ligonem stipendiarii. Chron. Tarv.; Rer. It., xix, 864.
   ([17]) Ai 13 di luglio, essendo stato proclamato Nicolò Trevisano, che fu capitano nel Po, ed essendosi egli assentato, gli Avogadori di Comune andarono al consiglio de’ Pregadi, e messero di procedere contro di lui, per essere stato rotto in Po da’ galeoni del Duca di Milano ai 21 di giugno passato, in vitupero del Dominio, e per non aver fatto il suo dovere, immo vilissime essersi portato; immo perché andò pregando gli altri che fuggissero via. Sanuto, Rer. Ital., xxii, 1017.
   ([18]) Navagero, Stor. Ven.; Rer. Ital., xxiii, 1096.
   ([19]) Sanuto: Rer. It., xxii, 1028.
   ([20]) Cronica di Bologna: Rer. It., xviii 645.
   ([21]) Poggii, Hist. lib. vi.
   ([22]) Rivoluzioni d’Italia, lib. xx, cap. 1.

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